Sintesi: Il nostro ordinamento insegue da tempo il sogno di un procedimento unico al cui interno si formi la decisione finale rilevante per il governo del territorio, sopra tutto con riguardo a interventi puntuali. Tramontato – per l’intervento della Consulta – il tentativo di costruire il modello affidandolo alla competenza comunale in senso antiregionalista, il diritto legislativo si orienta ben presto in senso opposto, nel senso cioè di comprimere l’autonomia dei municipi, il cui dissenso è più facilmente superabile in conferenza di servizi. È di nuovo la Corte costituzionale a stabilire il punto di equilibrio, muovendosi nella logica del principio di proporzionalità. L’irruzione della normazione PNRR sembra disegnare oggi un assetto molto più improntato al principio di unicità, sia pure con i dubbi residui circa la nuova disciplina del PAUR. Il timore, adesso, è che si affermi un unicismo assiologico il quale – pur asserendo d’esser coerente con le istanze di tutela ambientale ed ecologica – persegua in realtà finalità di profitto.
Abstract: For a long time now, the Italian legal system has been pursuing the dream of a single procedure within which the final decision relevant to territorial government is made, especially with regard to specific measures. After the Constitutional Court’s intervention, the attempt to construct the model by entrusting it to the municipalities in an anti-regionalist sense was thwarted, and law soon moved in the opposite direction, restricting the autonomy of the municipalities, whose dissent is easier to overcome in the services conference. Once again, the Constitutional Court established the balance point, in line with the principle of proportionality. The irruption of the PNRR regulation now seems to draw a system much more marked by the principle of uniqueness, albeit with the remaining doubts about the new discipline of the PAUR. The fear, now, is that an axiological unicism will be affirmed which – while claiming to be consistent with the demands of environmental and ecological protection – really pursues the goal of profit.
Parole chiave: governo del territorio; principio di unicità procedimentale; nucleo essenziale del potere pianificatorio comunale; normazione PNRR; pseudo-ambientalismo.
Keywords: territorial government; principle of procedural uniqueness; essential core of municipal planning power; PNRR regulation; pseudo-environmentalism.
Sommario: 1. Gli esordi: ascesa e tramonto dell’unicismo antiregionalista. – 2. Modelli successivi e riserva comunale nel governo del territorio. – 3. Il principio di unicità nella normazione PNRR: l’occasione perduta del procedimento PAUR. – 4. Qualcosa ancora dalla frontiera del PNRR. – 5. Tempo di chiudere: nuovi unicismi per nuove primazie.
- Gli esordi: ascesa e tramonto dell’unicismo antiregionalista. – Era la meta sognata, forse inattingibile: «molto di là da venire», per riprendere il Gozzano del titolo.
Quella parola – “unicità” – continua a innamorare i giuristi, sopra tutto se prossimi ai mutevoli detentori del potere.
Sorvoliamo qui sui suoi ascendenti, animati dalla stessa ragion d’essere: i tormentatissimi procedimenti conferenziali di cui alla l. n. 241/’90.
La storia di questa fascinazione italiana facciamola allora principiare più o meno negli ultimi anni ’90, con la celebre l. 15 marzo 1997, n. 59 (la così detta Bassanini 1).
L’art. 4, comma 3, lett. e), stabilisce che i conferimenti di funzioni agli enti territoriali devono conformarsi ad alcuni principi fondamentali, fra cui l’«unicità dell’amministrazione, con la conseguente attribuzione ad un unico soggetto delle funzioni e dei compiti connessi, strumentali e complementari».
Secondo l’art. 20 successivo, il governo presenta ogni anno un disegno di legge di semplificazione, il quale deve prevedere l’emanazione di «decreti legislativi, relativamente alle norme legislative sostanziali e procedimentali». A loro volta, questi decreti si attengono ad alcuni principi, fra cui la «riduzione del numero di procedimenti amministrativi» e l’«accorpamento dei procedimenti che si riferiscono alla medesima attività» (art. 20, comma 4, lett. d), l. n. 59/’97 cit.).
Ne discende il d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112.
Già l’incipit del suo art. 25 – la disposizione per noi più rilevante – fa capire che il sogno unitario si è come rattrappito. È vero, vi si legge una solenne dichiarazione che ha il tono aulico del manifesto: «Il procedimento amministrativo in materia di autorizzazione all’insediamento di attività produttive è unico». Ma questa unicità è solo enunciata, se il periodo successivo dello stesso primo comma già si affretta a precisare che «L’istruttoria ha per oggetto in particolare i profili urbanistici, sanitari, della tutela ambientale e della sicurezza». Non è poco, certo. Ma ha un effetto di senso che orienta verso la parzialità, verso cioè l’esistenza di aree scoperte, esposte alla tradizionale frammentazione procedimentale. Ci tornerò fra poco.
Ai nostri fini è poi importante la lett. g) del comma 2, per la quale il regolamento chiamato a disciplinare il procedimento in esame deve prevedere la «possibilità del ricorso alla conferenza di servizi quando il progetto contrasti con le previsioni di uno strumento urbanistico; in tal caso, ove la conferenza di servizi registri un accordo sulla variazione dello strumento urbanistico, la determinazione costituisce proposta di variante sulla quale si pronuncia definitivamente il consiglio comunale, tenuto conto delle osservazioni, proposte e opposizioni avanzate in conferenza di servizi nonché delle osservazioni e opposizioni formulate dagli aventi titolo ai sensi della legge 17 agosto 1942, n. 1150».
È evidente: non ha nulla di “unico” un procedimento col baricentro decisionale pericolosamente spostato al suo esterno: cioè – nonostante il già raggiunto accordo sulla variante – sulle determinazioni “politiche” che il consiglio comunale assumerà in merito. Anzi, la norma chiarisce che l’organo rappresentativo comunale non è affatto vincolato dall’accordo conferenziale: è rimessa alla sua discrezionalità la chiusura in senso positivo o meno della sequenza.
Ancora peggio.
Secondo la norma in esame, la delibera consiliare deve essere preceduta da una fase partecipativa (onde acquisire le «osservazioni e opposizioni formulate dagli aventi titolo ai sensi della legge 17 agosto 1942, n. 1150») e deve confrontarsi con tutti gli interessi manifestati nella singola vicenda: anche cioè con quelli emersi nel segmento conferenziale («tenuto conto delle osservazioni, proposte e opposizioni avanzate in conferenza di servizi»). Inutile sottolineare il livello di dispersione, incertezza e di lentezza che un tale assetto inevitabilmente genera.
Non è finita qui.
Quella lettera g), com’è noto, è stata dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale con sentenza 26 giugno 2001, n. 206 «nella parte in cui prevede che, ove la conferenza di servizi registri un accordo sulla variazione dello strumento urbanistico, la determinazione costituisce proposta di variante sulla quale si pronuncia definitivamente il consiglio comunale, anche quando vi sia il dissenso della regione».
Come si vede, la Consulta ha dato grande rilevanza al ruolo regionale in questi procedimenti, in cui la norma non concede spazio per un ulteriore segmento approvativo di competenza appunto della Regione: la quale avrebbe potuto quindi rappresentare il proprio intendimento unicamente in seno alla riunione, ivi esprimendo il proprio assenso o il proprio motivato dissenso: quest’ultimo, peraltro, non esplicitamente assistito da effetti di blocco della decisione conferenziale.
Secondo la Corte, però, ciò «equivale a consentire che lo strumento urbanistico sia modificato senza il consenso della Regione, con conseguente lesione della competenza regionale in materia urbanistica».
Effetto oggettivo della pronuncia è un ulteriore allungamento dei tempi della decisione e un ulteriore vulnus al principio di unicità. Eppure la sentenza n. 206/’01 non si è rivelata un argine davvero insormontabile alla concentrazione del decision making nella sede unica conferenziale, se poi la giurisprudenza amministrativa ha comunque potuto sostanzialmente eluderla muovendosi sul piano meramente interpretativo. Il giudice territoriale[1] ha infatti affermato – richiamando proprio C. cost. n. 206/’01 cit. – il carattere solo endoprocedimentale dell’apporto regionale alla conferenza di servizi: in altre parole, la Regione «non può considerarsi autrice» dell’atto conclusivo, «ma, al più, della sola proposta che viene approvata in conferenza e sulla quale si esprime definitivamente il solo Consiglio comunale. Pertanto, fatto salvo un espresso intervento dissenziente della Regione, la variante può perfezionarsi indipendentemente da un consapevole apporto di quest’ultima. La disposizione costituisce una evidente attenuazione del principio dello strumento urbanistico generale quale atto complesso in quanto il concorso della Regione non è più richiesto ai fini del perfezionamento dell’atto, ma al più quale parere obbligatorio e vincolante, da ritenersi positivamente acquisito anche nelle ipotesi di silenzio».
Siamo così arrivati alla procedura in variante prevista dallo sportello delle imprese: previsto dall’art. 5, d.P.R. 20 ottobre 1998, n. 447 e almeno in votis – ovviamente – unico.
Questa norma riprende l’ottimismo futurista, le ambizioni di concentrazione e unicità del suo dante causa, cioè dell’art. 25, comma secondo, lett. g), d.lgs. n. 112/’98, cit.: suscitando così speranze altrettali per una velocizzazione dei procedimenti localizzativi concernenti insediamenti produttivi.
Il comma 2 di quell’art. 5 riprende lo schema dell’art. 25 cit.: «Qualora l’esito della conferenza di servizi comporti la variazione dello strumento urbanistico, la determinazione costituisce proposta di variante sulla quale, tenuto conto delle osservazioni, proposte e opposizioni formulate dagli aventi titolo ai sensi della legge 17 agosto 1942, n. 1150, si pronuncia definitivamente entro sessanta giorni il consiglio comunale».
Si noti. L’art. 5 cit. non chiarisce se questo procedimento di localizzazione straordinaria si concluda con la deliberazione consiliare recante pronuncia definitiva sulla proposta di variante, ovvero se esso prosegua – secondo lo schema della legge urbanistica – con la fase regionale di approvazione.
Sulle prime il fervore da unicità sembrò prevalere, sia pur con diverse modulazioni.
Per esempio, una nota interpretativa ANCI del 26 maggio 1999[2] riconobbe sì l’indefettibilità della fase regionale, ritenendo che l’art. 5 non potrebbe «togliere alla regione – o alla provincia – il ruolo e la funzione che le è attribuito dalla legge urbanistica»; ma tentò di limitare la funzione della seconda fase, affermando che «la regione, secondo quanto stabilito dalle proprie leggi, avrà il compito di verificare che quanto deliberato dal consiglio comunale coincida con quanto approvato in conferenza di servizi, senza entrare nel merito e nei contenuti della modifica urbanistica già oggetto di valutazione positiva in conferenza» (ibidem). Né mancò chi ritenne che la seconda battuta regionale non fosse proprio necessaria, «in conformità alla ratio della massima incentivazione dello sviluppo economico»[3].
La tesi aveva buoni argomenti, anche formali.
Non solo la ratio, ma anche la lettera dell’art. 5 cit. lasciavano infatti intendere una scelta positiva in questa direzione: la norma qualifica la determinazione conclusiva della conferenza come «proposta di variante», su cui si pronuncia «definitivamente» il Consiglio comunale. Terminologia che riecheggia chiaramente il diritto giurisprudenziale, secondo cui la fase comunale di formazione del p.r.g. si conclude con la delibera di adozione, la quale ha appunto natura di proposta di approvazione formulata dall’A.c. alla Regione. Peraltro, sempre secondo il diritto vivente il subprocedimento di acquisizione delle osservazioni, nonché di controdeduzioni comunali alle stesse, appartiene alla seconda battuta. Applicando questi principi al modello disegnato dall’art. 5 si avrebbe che con la conferenza si conclude la fase di adozione della variante, pronunciandosi sulla quale la delibera consiliare definisce la successiva fase approvativa: senza ulteriore spazio per un altro segmento procedimentale di competenza della Regione, la quale avrà già rappresentato il proprio intendimento (ed espresso il proprio assenso o il proprio motivato dissenso) in seno alla riunione conferenziale.
In breve. Né l’art. 25, comma 2, lett. g), d.lgs. n. 112/’98, né l’art. 5, comma 2, d.P.R. n. 447/’98 prevedevano una fase regionale successiva alla pronuncia definitiva del Consiglio comunale, donde almeno la possibilità d’interpretare il silenzio serbato sul punto dalle due norme come una conferma che la seconda (meglio: terza…) battuta fosse estranea allo schema normativo.
Sì, l’ottimismo crebbe rapidamente, supportato dal diritto legislativo. L’art. 1, comma 1, lett. k), d.P.R. 7 dicembre 2000, n. 440, intervenne proprio su questo aspetto. Integrò infatti l’art. 5, comma 2, cit., cui aggiunse un periodo: «Non è richiesta l’approvazione della regione, le cui attribuzioni sono fatte salve dall’articolo 14, comma 3-bis della legge 7 agosto 1990, n. 241». Ma si sgonfiò ancor più rapidamente: e si trattò proprio d’un pasticcio normativo. Vediamolo.
Ho ricordato più sopra Corte cost. 206/’01, secondo cui la seconda battuta approvativa regionale è ineludibile: donde l’incostituzionalità dell’art. 25, comma 2, lett. g), d.lgs. n. 112/’98 cit. In quella pronuncia la Consulta prosegue, concedendo al legislatore un benevolo, trattenuto eufemismo. Estende infatti il suo esame proprio alla novella regolamentare recata dal d.P.R. n. 440/’00: «Né può valere, a far ritenere salvaguardata tale competenza, il richiamo al disposto dell’articolo 14, comma 3-bis della legge n. 241 del 1990, introdotto dall’art. 17 della legge n. 127 del 1997, che attribuiva fra l’altro al Presidente della Regione, previa delibera del consiglio regionale, il potere di disporre la sospensione della determinazione di conclusione positiva del procedimento, adottata dall’amministrazione procedente a seguito della conferenza di servizi. A parte ogni altra considerazione, infatti, detta disposizione non è più in vigore, a seguito della riformulazione degli articoli da 14 a 14-quater della legge n. 241 del 1990, operata dalla legge n. 340 del 2000: oggi l’art. 14-quater si limita a prevedere che se una o più amministrazioni hanno espresso nell’ambito della conferenza il proprio dissenso sulla proposta dell’amministrazione procedente, quest’ultima assuma comunque la determinazione di conclusione del procedimento sulla base della maggioranza delle posizioni espresse, e che solo qualora il motivato dissenso sia espresso da un’amministrazione “preposta alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute”, la decisione sia rimessa al Consiglio dei ministri (con l’intervento del presidente della regione quando il dissenso è espresso da una regione) ove l’amministrazione dissenziente o quella procedente sia un’amministrazione statale, ovvero “ai competenti organi collegiali esecutivi degli enti territoriali” nelle altre ipotesi (art. 14-quater commi 3 e 4). Non è dunque appropriata l’integrazione apportata di recente al regolamento in materia di sportelli unici per gli impianti produttivi dall’art. 1 del regolamento approvato con d.P.R. 7 dicembre 2000, n. 440, là dove dispone, per l’ipotesi di pronuncia definitiva del consiglio comunale sulla proposta di variante dello strumento urbanistico, che “non è richiesta l’approvazione della regione, le cui attribuzioni sono fatte salve dall’art. 14, comma 3-bis della legge 7 agosto 1990, n. 241”»[4].
In breve, la Corte mette in evidenza che per costringere le competenze regionali all’interno del perimetro conferenziale exart. 5 cit. la novella non aveva trovato di meglio che rinviare a una norma che non esisteva più, cioè all’art. 14, comma 3-bis, l. n. 241/’90.
La fase dell’unicismo “antiregionalista” finisce così, con poca gloria. Se qualche merito possiamo ascriverle, v’è quello di aver almeno segnato l’inizio delle esperienze di normazione volte alla concentrazione procedimentale.
- Modelli successivi di unicità e riserva comunale nel governo del territorio. – Il tema resta, però. Al di là dell’uso, in questa o quella disposizione, della nostra parola così fascinosa.
È il caso notissimo dell’art. 12, d.lgs. n. 387/’03, che intende razionalizzare e semplificare le «procedure» (al plurale nella rubrica, si noti) abilitative per «la costruzione e l’esercizio degli impianti di produzione di energia elettrica alimentati da fonti rinnovabili»: così il comma 3 della disposizione, secondo il quale queste procedure sfociano in una «autorizzazione unica […] che costituisce, ove occorra, variante allo strumento urbanistico»[5]. Per cui – prosegue ex abrupto il comma – «la Conferenza dei servizi è convocata […] entro trenta giorni dal ricevimento della domanda di autorizzazione».
Il legislatore delegato sembra voler subito ovviare alla gaffe “pluralista”, quando nella rubrica ha parlato di «procedure». Nel comma 4 si precisa infatti che «l’autorizzazione di cui al comma 3 è rilasciata a seguito di un procedimento unico, al quale partecipano tutte le Amministrazioni interessate»; che «il termine massimo per la conclusione del procedimento unico [repetita iuvant: n.d.r.] non può essere superiore a novanta giorni»; e che «il rilascio dell’autorizzazione costituisce titolo a costruire ed esercire l’impianto».
Il diritto giurisprudenziale ha correttamente riconosciuto il carattere automatico della variante eventualmente prevista dall’autorizzazione unica, che dunque comprime la competenza pianificatoria dei Comuni[6].
In somma, si fa sul serio.
Come pure nei successivi esperimenti normativi, racchiusi nel codice dell’ambiente: li troviamo negli artt. 27-bis e 208.
Parto da quest’ultimo, che regola l’autorizzazione unica per i nuovi impianti di smaltimento e recupero dei rifiuti. Sull’art. 27-bis tornerò più avanti.
Ricevuta l’istanza del soggetto interessato alla realizzazione e gestione dell’impianto, la Regione – dice il comma 3 dell’art. 208 cit. – deve convocare una conferenza di servizi, cui fra gli altri partecipano i rappresentanti degli enti locali territorialmente coinvolti; la decisione conferenziale – prosegue il comma – «è assunta a maggioranza e le relative determinazioni devono fornire una adeguata motivazione rispetto alle opinioni dissenzienti espresse» in quella sede.
La disposizione centrale è contenuta nel comma 6: «entro 30 giorni dal ricevimento delle conclusioni della conferenza dei servizi, valutando le risultanze della stessa, la Regione, in caso di valutazione positiva del progetto, autorizza la realizzazione e la gestione dell’impianto. L’approvazione sostituisce ad ogni effetto visti, pareri, autorizzazioni e concessioni di organi regionali, provinciali e comunali, costituisce, ove occorra, variante allo strumento urbanistico […]»[7].
Questa volta il nostro legislatore delegato dà prova di continenza: di sapersi cioè moderare almeno sul piano lessicale, evitando di proclamare espressamente unicità procedimentali. Rispetto all’art. 12, d.lgs. n. 387/’03 cit., la sostanza però non cambia. Conclusa la conferenza, la Regione decide: e se approva il progetto, il provvedimento regionale imprime all’area di localizzazione dell’intervento una destinazione in variante.
Tutto molto semplice e lineare: nel segno dell’unicità, appunto.
Ma non basta ignorare un problema per ritenerlo de iure risolto: qual è, infatti, il ruolo del Comune in un procedimento che comunque interseca una delle competenze più gelosamente custodite dai municipi, cioè la pianificazione urbanistica di base? La disposizione in esame non lo chiarisce, trasferendo sul diritto (dottrinale e) giurisprudenziale[8] l’onere di fronteggiare un tema non meno classico che spinoso: i limiti della riserva comunale in materia. La «questione annosa»[9], cioè, del ruolo che enti locali e Regione sono chiamati a svolgere nel processo di gestione del territorio, in modo da individuarne – e circoscriverne – il rispettivo raggio d’azione. Restavano da precisare, in particolare, garanzie e limiti della competenza comunale a fronte di decisioni esterne, regionali o statali: in altre parole, della misura in cui lo Stato o la Regione possano ingerirsi nelle scelte urbanistiche degli enti “minori”, e di come identificare adeguati meccanismi di reciproco bilanciamento[10]. Enti la cui autonomia – ha rilevato già due decenni fa la Corte costituzionale – «le leggi regionali non possono mai comprimere fino a negarla»[11]; ma ciò – soggiunge subito la Consulta – «non implica una riserva intangibile di funzioni e non esclude che il legislatore regionale possa, nell’esercizio della sua competenza, individuare le dimensioni della stessa autonomia, valutando la maggiore efficienza della gestione a livello sovracomunale degli interessi coinvolti»[12]. A fortiori, quindi, può farlo il diritto primario di fonte statuale.
Anche se non è recente, questa affermazione della Corte riassume bene i due aspetti del tema.
La Consulta pone per un verso in risalto l’autonomia comunale, presidiandola da intromissioni troppo invasive.
Essa, in particolare, ha ritenuto illegittime – in quanto idonee ad «alterare profondamente l’ordine delle competenze tra Regione e Comuni delineato dalla legislazione statale in materia urbanistica e fatto salvo dall’art. 2 del d.P.R. n. 616 del 1977»[13] – leggi (regionali) che prevedevano procedimenti pianificatori o d’intervento puntuale nei quali «tutti i poteri decisionalispettanti in tale materia agli organi comunali vengono […] nella sostanza trasformati in semplici poteri consultivi e di proposta o in mere attività esecutive»[14]. Ancor più specificamente, la Corte ha chiarito che «il potere dei Comuni di autodeterminarsi in ordine all’assetto e alla utilizzazione del proprio territorio non costituisce elargizione che le Regioni, attributarie di competenza in materia urbanistica, siano libere di compiere. Si tratta invece di un potere che ha il suo diretto fondamento nell’art. 128 della Costituzione, che garantisce, con previsione di principio, l’autonomia degli enti infraregionali, non solo nei confronti dello Stato, ma anche nei rapporti con le stesse Regioni, la cui competenza nelle diverse materie elencate nell’art. 117, e segnatamente nella materia urbanistica, non può mai essere esercitata in modo che ne risulti vanificata l’autonomia dei Comuni. Questa, infatti, non può dirsi rispettata se il procedimento finalizzato all’approvazione, da parte della Regione, degli strumenti urbanistici non assicuri la partecipazione degli enti il cui assetto territoriale venga coinvolto (sent. n. 1010 del 1988); partecipazione si aggiunga che non può essere puramente nominale ma deve essere effettiva e congrua», e nello stesso tempo idonea a scongiurare deprecabili «situazioni di stallo decisionale»[15]. In altre parole, la Corte ha legittimato la pretesa partecipativa comunale – nei termini appena esaminati – anche con riguardo alla formazione di strumenti ovvero alla previsione di interventi puntuali che, pur non imputabili formalmente al Comune, ne interessino comunque il relativo territorio: nei casi ricordati, infatti, venivano in rilievo o specifici progetti regionali[16], ovvero previsioni pianificatorie di livello sovracomunale[17].
Per altro verso, tuttavia, la Corte ha evidenziato la centralità del ruolo regionale nei processi di governo del territorio.
La Consulta, infatti, ha preliminarmente attribuito rilevanza proprio alla natura sovracomunale del livello di pianificazione preso in considerazione al fine di trarne conseguenze validanti un più esiguo spessore della pretesa lato sensu partecipativa riconoscibile al Comune[18]. In tal caso, ad avviso della Corte l’ordo decisionis non deve per forza conformarsi allo schema tipizzato dall’art. 10, comma 4, l. n. 1150/’42 (come modificato dall’art. 3 della legge ponte): il quale è applicabile solo alla pianificazione di livello comunale, che peraltro – si precisa nella pronuncia – non può ritenersi con certezza un principio generale dell’ordinamento. Ferma pertanto – si conclude – anche in queste ipotesi la necessità di garantire la partecipazione sostanziale del Comune, rientra nella discrezionalità del legislatore (in quella vicenda, regionale) disciplinare le modalità concrete di quella presenza nel procedimento[19].
Rileva, infatti, «la previsione con cui il legislatore statale, nell’esercizio della competenza ad esso esclusivamente attribuita dall’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost., ha individuato, “[f]erme restando le funzioni di programmazione e di coordinamento delle regioni, loro spettanti nelle materie di cui all’articolo 117, commi terzo e quarto, della Costituzione”, quali funzioni fondamentali dei Comuni “la pianificazione urbanistica ed edilizia di ambito comunale, nonché la partecipazione alla pianificazione territoriale di livello sovracomunale” (art. 14, comma 27, lettera d, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, recante “Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica”, convertito, con modificazioni, nella legge 30 luglio 2010, n. 122). Con tale previsione è stato legislativamente riconosciuto un orientamento costante della giurisprudenza costituzionale, secondo cui quella attinente alla pianificazione urbanistica rappresenta una funzione che non può essere oltre misura compressa dal legislatore regionale, perché “il potere dei comuni di autodeterminarsi in ordine all’assetto e alla utilizzazione del proprio territorio non costituisce elargizione che le regioni, attributarie di competenza in materia urbanistica siano libere di compiere” (sentenza n. 378 del 2000) e la suddetta competenza regionale “non può mai essere esercitata in modo che ne risulti vanificata l’autonomia dei comuni” (sentenza n. 83 del 1997)»[20].
La giurisprudenza costituzionale, in somma, non ritiene che il modello della legge urbanistica sia l’archetipo di ogni assetto relazionale fra livelli di pianificazione[21].
La Corte muove, in particolare, da una considerazione importante: lo schema delineato da quella legge nel lontano 1942 è oramai superato, poiché si fondava sul riparto di funzioni fra lo Stato, cui competeva la pianificazione direttoria (efficace soltanto nei confronti delle successive scelte municipali), e i Comuni, uniche figure soggettive deputate a imprimere effettività conformativa e prescrittiva agli usi del territorio[22].
La «scarsa incisività»[23] di quel modello ha indirizzato l’ordinamento non più verso la precostituzione di corrispondenze tendenzialmente rigide fra funzioni e figure soggettive, ma verso la selezione del livello di pianificazione – anche in ipotesi di interventi puntuali – di volta in volta ritenuto più adeguato e dunque più idoneo alla protezione di specifici assetti territoriali (e di obiettivi ambientali). Ne deriva, in questa impostazione condivisibile, la necessità di conformare il principio autonomistico in funzione «di concorrenti interessi generali, collegati ad una valutazione più ampia delle esigenze diffuse nel territorio», i quali «esigono previsioni programmatiche (ma anche precettive) estese ad un ambito territoriale più vasto ed anche con maggior rigore e con maggiore efficienza rispetto alla valutazione di ambito comunale»: di qui, poi, la legittimità dell’«emanazione di disposizioni legislative (statali e regionali) che vengano ad incidere su funzioni assegnate agli enti locali»[24].
Non credo che il mio pensiero distorca la traiettoria seguita dalla Consulta: non vi trovo infatti un vieto prossimalismo[25]filomunicipale; se mai il suo contrario, pur nel quadro di una ricerca sensibile a favore di equilibri non irrigiditi in schemi lontani dalla realtà e dinamicamente protesi verso l’effettività funzionale di un modello concreto.
Ne è un buon esempio – anzi una summa – C. cost. 16 luglio 2019, n. 179.
La Consulta non disconosce certo il ruolo dei Comuni nel governo del territorio: «la funzione di pianificazione urbanistica, infatti, come giustamente rileva il giudice rimettente[26], nel nostro ordinamento è stata tradizionalmente rimessa all’autonomia dei Comuni fin dalla legge 25 giugno 1865, n. 2359 (Sulle espropriazioni per causa di utilità pubblica). Tutta la complessa evoluzione che ha condotto allo sviluppo dell’ordinamento regionale ordinario, a una più ampia concezione di urbanistica e quindi alla consapevolezza della necessità di una pianificazione sovracomunale, non ha travolto questo presupposto di fondo. […] Il legislatore statale ha quindi sottratto allo specifico potere regionale di allocazione ai sensi dell’art. 118, secondo comma, Cost., la funzione di pianificazione comunale, stabilendo che questa rimanga assegnata, in linea di massima, al livello dell’ente più vicino al cittadino, in cui storicamente essa si è radicata come funzione propria, e l’ha riconosciuta come parte integrante della dotazione tipica e caratterizzante dell’ente locale. Ha così stabilito un regime giuridico comune sottratto, per questo aspetto e salvo quanto si dirà in seguito[27], alle potenzialità di differenziazione insite nella potestà allocativa delle Regioni nelle materie di loro competenza».
Subito il contrappasso, però: «se quindi la funzione di pianificazione comunale rientra in quel nucleo di funzioni amministrative intimamente connesso al riconoscimento del principio dell’autonomia comunale, ciò non comporta, tuttavia, che la legge regionale non possa intervenire a disciplinarla, anche in relazione agli ambiti territoriali di riferimento, e financo a conformarla in nome della verifica e della protezione di concorrenti interessi generali collegati a una valutazione più ampia delle esigenze diffuse sul territorio (sentenza n. 378 del 2000). Anche dopo l’approvazione della riforma del Titolo V della Costituzione, infatti, questa Corte ha ribadito, con riguardo all’autonomia dei Comuni, che “essa non implica una riserva intangibile di funzioni, né esclude che il legislatore competente possa modulare gli spazi dell’autonomia municipale a fronte di esigenze generali che giustifichino ragionevolmente la limitazione di funzioni già assegnate agli enti locali” (sentenza n. 160 del 2016). Non sono mancate occasioni, inoltre, in cui questa Corte ha anche espressamente escluso che “il ‘sistema della pianificazione’ assurga a principio così assoluto e stringente da impedire alla legge regionale – che è fonte normativa primaria sovraordinata rispetto agli strumenti urbanistici locali – di prevedere interventi in deroga a tali strumenti” (sentenza n. 245 del 2018; nello stesso senso, sentenza n. 46 del 2014). La competenza concorrente in materia di governo del territorio, infatti, abilita fisiologicamente la legislazione regionale a intervenire nell’ambito di disciplina della pianificazione urbanistica».
La sintesi, in fine: «in questi casi, dove emerge come il punto di equilibrio tra regionalismo e municipalismo non sia stato risolto una volta per tutte dal riformato impianto del Titolo V della Costituzione, il giudizio di costituzionalità non ricade tanto, in via astratta, sulla legittimità dell’intervento del legislatore regionale, quanto, piuttosto, su una valutazione in concreto, in ordine alla “verifica dell’esistenza di esigenze generali che possano ragionevolmente giustificare le disposizioni legislative limitative delle funzioni già assegnate agli enti locali” (sentenza n. 286 del 1997). Viene quindi in causa il variabile livello degli interessi coinvolti, cui ha riconosciuto specifica valenza costituzionale l’affermazione del principio di sussidiarietà verticale sancito nell’art. 118 Cost., che porta questa Corte a valutare, nell’ambito di una funzione riconosciuta come fondamentale ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost., quanto la legge regionale toglie all’autonomia comunale e quanto di questa residua, in nome di quali interessi sovracomunali attua questa sottrazione, quali compensazioni procedurali essa prevede e per quale periodo temporale la dispone».
Non è una conclusione di solo metodo, poiché la Corte fa una scelta meritale molto netta: «il livello regionale è strutturalmente quello più efficace a contrastare il fenomeno del consumo di suolo, perché in grado di porre limiti ab externo e generali alla pianificazione urbanistica locale».
Nessun prossimalismo di comodo, quindi, né una stucchevole Vorrangsentscheidung per il soggetto più vicino.
Il policentrismo autonomistico uscito dall’infelice riforma a colpi di maggioranza inferta nel 2001 al Titolo V ha infatti demagogicamente favorito gli assetti organizzativi che danno il maggior numero di competenze alle amministrazioni territoriali “più vicine” ai cittadini. In questa visione, lo Stato è intriso di negatività strutturale, poiché lontano dalle esigenze – di per sé virtuose – espresse dalle collettività insediate, invece ben amministrate dai sempre efficienti enti locali[28].
I danni di una tale impostazione sono evidenti[29]. Come tutti sanno, il (nuovo) primo comma dell’art. 118 Cost. attribuisce le funzioni amministrative territoriali ai Comuni, salvi i casi di sussidiarietà ascendente sulla base dei tre noti principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza. In sintesi, il legislatore ordinario dovrebbe – almeno di regola – preferire i Comuni[30], amministrazioni pubbliche rappresentative per eccellenza: vicine al cittadino, e per ciò solo misticamente capaci di coglierne con prontezza i bisogni e quindi di soddisfarli con premura solerte ed efficiente.
Quella norma trascura purtroppo un dato di fatto tanto prevedibile, quanto poi verificatosi: il decisore locale è spesso cera molle nelle mani di soggetti che possano esercitare pressioni tali da far prevalere l’interesse privato sull’interesse pubblico. La ridotta dimensione spaziale degli enti territoriali[31] favorisce opacità per cui al cui la scelta finale non è l’esito della legittima ponderazione fra interessi (pubblici e privati) palesi, ma la risultante di spinte occulte[32].
L’incomprensibilità della riforma costituzionale del 2001 nell’aver stabilito una clausola di preferenza a favore di Comuni ed enti di prossimità in generale[33] deriva insomma dalla negativa dovizia di esempi offerti dalla nostra storia in merito all’incapacità delle figure territoriali nel contenere urgenze siffatte, certo dissonanti rispetto alla cura dell’interesse pubblico.
Non intendo accomunare situazioni ed esperienze politico-amministrative molto diverse e divaricate per qualità e dinamismo d’azione. Esistono grandi differenze “prestazionali” fra i Comuni italiani: il centro-nord del Paese ha saputo più spesso disegnare e attuare modelli di buon governo, che invece sono tendenzialmente estranei al resto del Paese[34].
Il pensiero giuridico ha colto bene questo profilo, come pure l’azione di riequilibrio provvidamente spiegata dalla Consulta nella pronuncia n. 179/’19 in esame: «l’applicazione del principio di sussidiarietà verticale secondo la preminente rilevanza del criterio della variabile dimensione degli interessi – pure rispetto ad ambiti decisionali storicamente riservati all’autonomia locale – può determinare, paradossalmente, il riconoscimento dell’autonomia locale ma attraverso logiche che sterilizzano comunque la clausola di prossimità quale presupposto dei principi sul riparto della potestà amministrativa. In tal modo, la Corte non preserva le prerogative locali per quella “decisione di preferenza in favore del livello più vicino agli interessati” da ricondurre al maggior tasso di democraticità insito nelle istituzioni locali quali più immediate espressioni della volontà popolare. I giudici costituzionali ricorrono, invece, a criteri certamente più elastici ma che il più delle volte tendono a ridurre gli spazi di autonomia degli enti locali, come attestano i precedenti richiamati dalla stessa pronuncia in commento dove la Corte, o ha deciso sull’assetto pre-riforma delle competenze, oppure, in presenza di un effettivo contrasto in materia urbanistica tra interesse sovralocale e interesse comunale, ha perlopiù sancito la prevalenza del primo sul secondo, anche in caso di interventi regionali ben più incisivi di quelli di programmazione e coordinamento»[35].
Mi sembra che quella pronuncia sia abbastanza in asse con la precedente decisione 25 gennaio 2019, n. 9, dove la Corte ha chiarito il ruolo che l’ordinamento attribuisce ai municipî – in particolare all’organo collegiale rappresentativo e dunque politico: il consiglio comunale – nei modelli in cui, dopo la conclusione della conferenza, il diritto positivo prevede un segmento procedimentale ulteriore.
La premessa concettuale è limpida: il quadro normativo attuale «è il frutto di una lunga e complessa evoluzione legislativa dell’istituto della conferenza di servizi, che ha visto oscillare il legislatore tra un modello a struttura unitaria e uno a struttura dicotomica del suo atto conclusivo. Superando le incertezze che talune formule legislative avevano ingenerato, il testo oggi vigente è chiaro nell’opzione a favore di un modello a struttura unitaria». Nel caso ivi esaminato, al contrario, «il legislatore regionale – escludendo dalla conferenza la valutazione dell’organo politico inscindibilmente legata alla determinazione da assumere, in quanto quest’ultima “presuppone o implica” la prima – si pone in una logica che, lungi dal potenziare o sviluppare il disegno di semplificazione e accelerazione definito dal legislatore statale, finisce con il vanificare il senso stesso della conferenza e l’efficacia della sua determinazione conclusiva. In base alla previsione regionale contestata, infatti, la decisione dell’organo di indirizzo politico mantiene la sua autonomia e può arrivare a stravolgere, dall’esterno, l’esito della conferenza, giacché le valutazioni espresse da detto organo (siano esse assunte prima o dopo lo svolgimento della conferenza) prevalgono su quelle degli altri partecipanti. Così disponendo, il legislatore lombardo assegna alla decisione dell’organo di indirizzo politico (estrapolata dalla conferenza di servizi) un valore diverso e maggiore rispetto a quello delle valutazioni espresse dalle altre amministrazioni competenti. Inoltre, la norma regionale – prevedendo che l’efficacia della determinazione di conclusione della conferenza sia sospesa nelle more della formalizzazione del provvedimento dell’organo politico – tradisce anche sotto un diverso profilo la ratiodell’istituto, eludendo l’esigenza di speditezza e contestualità cui risponde la previsione che non solo impone a tutte le amministrazioni interessate di esprimere il proprio dissenso in conferenza, ma assegna alla determinazione ivi assunta efficacia sostitutiva, a ogni effetto, di tutti gli atti di assenso, comunque denominati, di competenza delle amministrazioni coinvolte. […] In conclusione, la norma regionale impugnata non assicura “livelli ulteriori di tutela”, e anzi chiaramente sacrifica le finalità di semplificazione e velocità alla cui protezione è orientata la disciplina statale. Essa configura inoltre un modello di conferenza di servizi del tutto squilibrato e contraddittorio: squilibrato, perché assegna una netta prevalenza alla valutazione degli organi di indirizzo politico (senza precisare inoltre che cosa avvenga in caso di coinvolgimento di più organi politici); contraddittorio, perché, sebbene la decisione da assumere in conferenza presupponga o implichi un provvedimento di questi organi, la loro valutazione è separata da quella degli altri soggetti interessati».
In sintesi. Nel modello conferenziale la decisione finale, anche se connotata da un tasso elevato di politicità, deve indefettibilmente adottarsi all’interno del relativo procedimento, come atto che la conclude. Una strutturazione diversa – che collochi invece quella decisione all’esterno – è pertanto incostituzionale, poiché le disposizioni della l. n. 241/’90 in materia definiscono (come norme interposte) un inderogabile livello essenziale di prestazioni ex art. 117, secondo comma, lett. m), Cost.[36].
Anche la decisione politica[37] dev’esser quindi assunta all’interno della conferenza, in tal modo definendola.
Questo ci dice C. cost. 9/’19 cit., che però contiene altre affermazioni interessanti, pur se meno condivisibili.
La Corte è chiamata a fronteggiare anche una questione discendente dal principio di diritto che ho appena ricordato. Questa: poiché nel modello conferenziale neppure la decisione politica può “sfuggire” dal relativo procedimento, pena l’incostituzionalità delle norme che disegnino un assetto così concepito, stessa sorte dovrebbero avere allora schemi come quelli di cui all’art. 5, d.P.R. n. 447/’98 e all’art. 8, d.P.R. n. 160/’10. Entrambe norme – la seconda sostanzialmente riproduttiva della prima – secondo cui dopo la conferenza di servizi il consiglio comunale può[38] – non deve – ratificare gli atti di natura tecnica acquisiti in quella sede; norme, peraltro, non modificate né dal d.lgs. n. 127/’16 (sulla conferenza di servizi), né dal d.lgs. n. 104/’17 (sulla v.i.a.).
La Consulta risponde sostenendo che in questi casi la delibera comunale non si pone come vieta “ratifica” discrezionale degli atti conferenziali, ma come atto conclusivo di un procedimento distinto e diverso: quello di approvazione della variante urbanistica semplificata. Lasciamo la parola alla Corte: «la determinazione finale della conferenza assume anche la valenza di atto di iniziativa per l’attivazione del relativo distinto procedimento di variante. Per questa ragione, la giurisprudenza amministrativa è costante nel ritenere che, rispetto a tale procedimento, “l’atto conclusivo del procedimento che si articola nella Conferenza non ha carattere decisorio ma costituisce una proposta di variante dello strumento urbanistico (espressamente l’art. 5, comma 2, del d.P.R. n. 447/1998; implicitamente l’art. 8, comma 1, del d.P.R. n. 160/2010)” (Cons. Stato, sezione quarta, sentenza 20 ottobre 2016, n. 4380; in senso conforme, limitatamente alle più recenti, TAR Lombardia-Milano, sezione seconda, sentenza 28 marzo 2017, n. 730; TAR Campania-Napoli, sezione ottava, sentenza 24 marzo 2016, n. 1579). […] Così considerata, dunque, la deliberazione del Consiglio comunale non costituisce affatto una fase ulteriore del medesimo procedimento ma inerisce, come detto, a un procedimento distinto».
Per salvare da dubbi di costituzionalità l’art. 8, d.P.R. n. 160/’10 – e, quel che più conta, il modello generale a decisione politica esoconferenziale con effetti di variante urbanistica – la Consulta usa il distinguishing: separa il provvedimento dell’organo rappresentativo territoriale dal procedimento precedente e lo qualifica invece come atto conclusivo di una sequenza altra, che – secondo la Corte – sarebbe successiva e funzionalmente diversa: quella ordinata ad approvare la modifica puntuale del piano regolatore.
Devo dire che quest’ultima affermazione della Consulta mi convince meno rispetto alla posizione, esaminata più sopra, circa la necessaria endoconferenzialità (anche) della decisione politica. La trovo inutilmente conservativa.
Mi spiego. Una volta chiarito che il modulo conferenziale può e deve annettere a sé anche la decisione politica, la Corte – se non m’inganno – avrebbe potuto spingersi oltre, quantomeno “problematizzando” lo schema invece dissonante disegnato dall’art. 8, d.P.R. n. 160/’10: evidenziando cioè la presenza delle stesse criticità ravvisate nella norma regionale lombarda dichiarata incostituzionale in quel giudizio. Sarebbe stato un passo avanti nella direzione dell’unicità reale ed effettiva.
La Consulta ha invece preferito non ravvisare una par turpitudinis causa. Per farlo (avallando in tal modo il modello exart. 8 cit.) ha dovuto teorizzare – come abbiam visto – che la decisione consiliare approvativa della variante apparterrebbe al procedimento urbanistico, che sarebbe distinto da quello conferenziale.
Ma nel modulo ex art. 8 cit. non riesco proprio a distinguere due procedimenti.
Oltre al fatto che così ragionando si negherebbe in radice l’unicità perseguita dalla norma in esame, resta un dato per così dire realistico-funzionale: quel modulo è organicamente tutto proteso a produrre l’effetto giuridico di variante (puntuale), per cui il diritto vivente non dovrebbe tollerare la previsione di una decisione esoconferenziale, sia o meno essa di contenuto politico[39]. Di ciò la pronuncia sembra aver consapevolezza, sebbene la esprima in modo poco chiaro: per due volte afferma infatti che il Consiglio comunale (l’«organo politico») partecipa necessariamente alla conferenza[40], senza però indicare dove sia la base normativa di un siffatto convincimento.
Se condotta con atteggiamento il più possibile esente da precomprensioni condizionanti, l’analisi della giurisprudenza costituzionale consente, in definitiva, di inserire il principio autonomistico all’interno di un catalogo di metacriteri operativi che – pur nella loro innegabile elasticità[41] – possono utilmente orientare per verificare la correttezza degli assetti relazionali fra livelli di pianificazione interni al polo delle autonomie territoriali.
Anzitutto la «riconoscibilità» generale del territorio – custode e segno di identità collettive – da parte delle comunità locali. Un legame, questo, che pianificazioni o interventi «altri» non potrebbero legittimamente recidere, e che fissa il limite intrinseco e strutturale di ogni sistema multilivello, in quanto connotato da una pluralità di attori e decisori.
All’interno di questo presidio estremo è attivo un ulteriore (meta)criterio, che commisura l’incisività della scelta eteronoma o esterna alla consistenza dell’interesse pubblico che vi è sotteso: può farsi qui rinvio – com’è stato osservato[42] – alla nota giurisprudenza costituzionale sulla variabilità del livello allocativo ottimale degli interessi, id est sulla mutevolezza negli esiti finali del rapporto dialettico fra adeguatezza e sussidiarietà.
La Corte identifica due mala vitanda opposti: per un verso, gli assetti procedimentali incapaci di evitare situazioni di stallo decisionale[43]; per altro verso, quelli che invece svuotano la partecipazione comunale di ogni capacità di incidere in senso realmente conformativo sul potere regionale di pianificazione.
In disparte, tuttavia, queste situazioni per così dire estreme, la Corte non affronta il nodo della ordinarietà: cioè della costruzione e della valutazione in termini di correttezza costituzionale di una determinata esperienza di normazione, riguardata nel suo complesso, la quale – assumendo obiettivi di tutela di un interesse sovra- o metacomunale – delinei un assetto di rapporti fra livelli di pianificazione che, sulla scorta dei criteri appena cennati, sia da considerare equilibrato perché capace di forgiare una declinazione del principio autonomistico adeguata alle articolazioni concrete dei processi reali da regolare.
Un compito e un giudizio davvero di non poco momento, cui il legislatore e la Consulta sono rispettivamente chiamati avendo a disposizione, in sostanza, soltanto le pur duttili tecniche – e «l’enorme capacità espansiva e qualificatoria»[44] – del principio di ragionevolezza. Il quale consente di percepire – andando oltre «il filo della linea distintiva delle competenze proprie di ciascun organo o ente»[45] – lo «spessore» e l’«intrinseco dinamismo» che caratterizzano queste relazioni intersoggettive, bisognose pertanto di una diversa strategia d’approccio, più sensibile alle loro valenze assiologico-sostanziali.
A esse connesso da una relazione di strumentalità diretta si mostra poi il principio di leale collaborazione, tramite necessario per cogliere le declinazioni mutevoli e sottili nelle quali si articolano i rapporti fra livelli di governo, non solo sul versante delle mutue interazioni che le autonomie territoriali tracciano nei confronti dello Stato, ma anche al loro stesso interno.
A sua volta, la ragionevolezza – alla cui stregua ogni giudizio ultimo è condotto – chiude la virtuosa circolarità che la unisce al principium cooperationis e per esso al sistema di valori dai quali trae linfa l’ordinamento[46].
Tutti criteri – e tecniche di scrutinio – utili per sindacare esperienze di normazione ordinate a delineare non soltanto modi e forme di tutela di interessi sovra- o metacomunali intersecanti ambiti di amministrazione comunale[47]; ma anche – compito più ambizioso – un modello generale di relazioni fra figure rappresentative territoriali nella gestione e nell’uso del territorio.
3.- Il principio di unicità nella normazione PNRR: l’occasione perduta del procedimento PAUR. – Queste considerazioni di ordine generale hanno una ricaduta diretta sul tema nostro: trovare il limite entro cui l’autonomia comunale, in forza del principio di unicità, può essere sospinta tutta – o se si preferisce: sacrificata – all’interno di un procedimento omnicomprensivo che abbia valenza sia (di variante) urbanistica, sia abilitativa all’intervento. Che definisca e decida cioè – ordine productionis uno – entrambi gli aspetti.
Per conseguire l’unicità di questi procedimenti – effettiva, non solo dichiarata – il diritto positivo non deve prevedere nessun segmento dopo la decisione che conclude la sequenza[48]: non solo per fare scelte che potrebbero addirittura invalidare, rimettere in discussione o comunque modificare l’assetto d’interessi deciso in conferenza, ma neppure per ratificarlo con l’adozione di atti vincolati. Com’è invece noto, l’ordinamento si avvolge ancora nella contraddizione di presentare come «unici» atti (e procedimenti relativi) che richiedono in realtà un successivo completamento effettuale rimesso alla più imprevedibile figura rappresentativa territoriale: il Comune.
Alle corte: dopo la decisione (conferenziale o semplicemente procedimentale), nulla. Ogni eccedenza – sia o meno essa di poco momento – da questo schema semplicissimo rende canzonatoria l’etichetta di unicità attribuita a un modello procedimentale (e quindi decisorio).
Dopo un lungo tempo d’illusioni abbastanza improduttive, la questione sta venendo in primo piano. E in un modo persino troppo prepotente.
Mi riferisco al corpus di diritto legislativo collegato al PNRR.
Viene in primo piano il d.l. 31 maggio 2021, n. 77 (c.d. decreto semplificazioni-bis)[49]: di seguito una rassegna, senza pretese di completezza, delle norme che c’interessano.
Comincio dall’art. 24 del d.l. 77/’21 cit., il quale ha novellato l’art. 27-bis cod. amb. in tema di provvedimento autorizzatorio unico regionale (PAUR).
Il testo previgente non si occupava dell’eventuale contrasto del PAUR con la strumentazione urbanistica. Lo fa invece il nuovo, ma purtroppo in un modo che a me appare irresoluto.
Anzitutto, il nuovo testo del comma 4 contiene, alla fine, un periodo interamente aggiunto dalla novella, nel quale si amplia l’oggetto delle osservazioni endoprocedimentali che il pubblico interessato può presentare: nei casi in cui sia richiesta anche la variante ex art. 8, d.P.R. n. 160/’10 cit., «le osservazioni del pubblico interessato riguardano anche tale variazione e, ove necessario, la valutazione ambientale strategica». In altre parole, a differenza di quanto implicitamente[50] previsto nello schema ordinario dell’art. 8 cit., nel nuovo procedimento per il PAUR la fase partecipativa parrebbe essere endoconferenziale, onde un auspicabile effetto di accelerazione.
Veniamo al comma 7-ter: «laddove uno o più titoli compresi nella determinazione motivata di conclusione della conferenza di cui al comma 7 attribuiscano carattere di pubblica utilità, indifferibilità e urgenza, costituiscano variante agli strumenti urbanistici e vincolo preordinato all’esproprio, la determinazione conclusiva della conferenza ne dà atto». Ma cosa significa giuridicamente il sintagma «ne dà atto»? Né la relazione al disegno di legge di conversione (AC 3146), né le schede di lettura predisposte dai servizi studi di Camera e Senato ci dicono nulla, limitandosi a riportare il testo del comma. Affidare a una semplice presa d’atto un effetto giuridico di variazione diretta e immediata dello strumento urbanistico mi sembra eccessivo, anche perché il comma in esame riferisce l’effetto stesso non alla presa d’atto, ma ad altre imprecisate norme che lo facciano eventualmente discendere, a loro volta, da «uno più titoli compresi nella determinazione motivata di conclusione della conferenza». Devo con rammarico ritenere che il comma 7-ter presupponga l’esistenza di un’altra norma che attribuisca al rilascio di un altro titolo l’effetto di variante automatica, stabilendo semplicemente che se quel rilascio avviene in sede di conferenza PAUR, la determinazione conclusiva deve dare espressamente atto di un tale effetto.
Il PAUR, in somma, continua a non avere sui iuris effetti di variante automatica, potendo solo registrarli («ne dà atto») qualora prodotti da «uno o più titoli compresi nella determinazione motivata di conclusione della conferenza».
Non so spiegarmi le ragioni di questa timidezza, massime in quanto serbata all’interno di un ecosistema normativo molto particolare: quello di un diritto legislativo turbomotorizzato à la Schmitt. Siamo infatti in “ambiente” PNRR, dove rapidità e immediatezza di risultati dovrebbero essere la stella polare, onde navigare sempre sulla rotta verso il più ampio effetto utile.
La scelta conservativa mi sorprende per almeno due ragioni.
Anzitutto, la normazione regionale è già su posizioni più avanzate: un divario che quindi in quest’occasione poteva essere colmato.
Secondo la l.r. Emilia Romagna 20 aprile 2018, n. 4 («Disciplina della valutazione dell’impatto ambientale dei progetti»), infatti, «il provvedimento autorizzatorio unico comprende il provvedimento di VIA e i titoli abilitativi necessari per la realizzazione e l’esercizio del progetto rilasciati dalle amministrazioni che hanno partecipato alla conferenza di servizi, recandone indicazione esplicita» (art. 20, comma 2). Prosegue la l.r. cit.: «il provvedimento autorizzatorio unico costituisce variante[51] […] a condizione che l’assenso dell’amministrazione titolare del piano da variare sia preventivamente acquisito[52]. […] Qualora costituisca variante agli strumenti di pianificazione territoriale, urbanistica e di settore […] alla conferenza di servizi partecipa la Regione qualora la variante sia relativa alla pianificazione territoriale e la Provincia qualora la variante sia relativa alla pianificazione urbanistica, ai fini dell’intesa per l’approvazione della variante» (art. 21, comma 2). È questo, per me, un buon esempio di unicità procedimentale e decisoria: tutto nella conferenza; prima o dopo, nulla.
Altra ragione di mia sorpresa: la questione era da tempo nota e accuratamente tematizzata anche in ambienti istituzionali. Mi riferisco agli Indirizzi operativi per l’applicazione dell’art. 27-bis, d.lgs. 152/2006: il Provvedimento Autorizzatorio Unico Regionale pubblicati il 31 luglio 2019 dall’allora Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare[53].
Le premesse generali di questi Indirizzi sono ineccepibili: il procedimento ex art. 27-bis «ha ad oggetto il rilascio di tutte le autorizzazioni necessarie non solo alla realizzazione, bensì anche all’esercizio del progetto. Si tratta, in altri termini, di un procedimento che ha l’ambizione di essere realmente “unico” e di permettere al proponente di ottenere un provvedimento finale che gli consenta, all’indomani della relativa adozione, di realizzare il progetto e porre in esercizio l’opera senza dover acquisire più alcun ulteriore titolo»[54].
Ma questo intento lodevole resta sulla carta. Altrettanto puntuale, ai nostri fini specifici, è infatti l’esame delle criticità che si possono verificare qualora il procedimento conferenziale PAUR concerna un intervento che – in quanto non conforme alla disciplina urbanistica relativa al sito – richieda una variante. Lasciamo ancora parlare gli Indirizzi. «Il punto in argomento appare particolarmente critico, poiché concerne un aspetto non definito in termini netti dal legislatore: l’effettiva estensione dei “titoli” necessari alla realizzazione e all’esercizio dell’opera. La mancata definizione di tale perimetro induce legittimamente a domandarsi se tra i “titoli” in argomento debbano includersi altresì i titoli di conformità urbanistica. Spesso, infatti, la realizzazione delle opere soggette a VIA comporta la necessità di una variante urbanistica. Qualora si optasse per l’inclusione, all’interno del PAUR, altresì del “titolo di variante urbanistica” occorrerebbe coordinare l’acquisizione di tale titolo con il procedimento di cui all’art. 27-bis, e dunque sottoporre anche il soggetto competente all’approvazione della variante (che generalmente è il Consiglio comunale) alle stringenti tempistiche del PAUR, nonché alle rigorose modalità di svolgimento della conferenza di servizi. Tale soluzione interpretativa, oltretutto, creerebbe esigenze di coordinamento altresì con la eventuale Valutazione Ambientale Strategica (VAS) a cui dovrebbe essere assoggettata la variante richiesta, rendendo ancor meno verosimile il rispetto dei termini, perentori, previsti dall’art. 27-bis. […] La soluzione interpretativa che impone l’acquisizione della variante urbanistica come titolo necessario tra quelli da acquisire nel PAUR, se sotto un profilo di stretta attinenza al dettato normativo potrebbe sembrare non peregrina, all’atto pratico non è riconosciuta al momento come realizzabile. […] La variante urbanistica, di conseguenza, costituisce un presupposto gerarchicamente sovraordinato rispetto ai titoli autorizzativi da acquisirsi per la realizzazione e l’esercizio dell’opera e di conseguenza non può includersi la relativa adozione nell’ambito del procedimento autorizzatorio unico. In altri termini, la conformità urbanistica è un presupposto per il rilascio del PAUR, e, dunque, perché il PAUR venga rilasciato è necessario che l’eventuale variante venga ottenuta in via preventiva. Ciò, oltre a garantire una coerenza con i principi ordinamentali, salvaguarda, altresì, l’eventuale necessità di acquisire la VAS, che qualora necessaria potrà accompagnare l’iter di adozione della variante»[55].
Qui gli Indirizzi stanno parlando del caso critico in cui nessun titolo – fra quelli da acquisire in sede conferenziale – generi effetti di variante automatica, onde la necessità di esperire previamente la tradizionale doppia battuta prevista dalla legge del ’42: «[…] la variante al piano urbanistico, costituendo un presupposto per l’adozione anche del provvedimento di VIA, sembra dover essere acquisita necessariamente prima dell’istanza di PAUR. A suffragio di tale ipotesi interpretativa milita, inoltre, l’effettiva natura dei titoli di conformità urbanistica, i quali, in effetti, se sottoposti ad un’analisi sistematica non sembrano essere assimilabili a dei titoli autorizzativi tout court. Le modifiche ai piani urbanistici adottate secondo la procedura ordinaria – ad eccezione dunque delle varianti automatiche o semplificate – seguono lo stesso iter necessario per l’approvazione del piano stesso. Si tratta, infatti, di un iter che coinvolge l’organo politico e ne comporta una deliberazione»[56].
Problema diverso, anch’esso preso in esame dagli Indirizzi cit., si ha qualora nel perimetro della conferenza PAUR rientri un titolo il cui rilascio non comporta effetti di variante automatica, essendo invece necessario percorrere un procedimento ad hoc, sebbene semplificato rispetto a quello ordinario appena ricordato.
È il caso del procedimento ex art. 8, d.P.R. n. 160/’10 innestato all’interno di un procedimento PAUR[57].
- cost. n. 9/’19 – lo abbiam visto – ha (discutibilmente) avallato lo schema disegnato dall’art. 8 cit.: che, come detto, richiede una delibera dell’organo politico dopo la decisione conferenziale, qualificata dalla Consulta come adozione della variante. Anche qui il principio di unicità recede in modo vistoso: l’adozione del PAUR non legittima all’intervento, poiché sarà ancora da percorrere tutta la strada incertissima che conduce all’approvazione politica da parte dell’ente di prossimità.
- Qualcosa ancora dalla frontiera del PNRR. – Continuiamo la rassegna dei modelli disegnati dalla normazione PNRR. Lo schema predominante – lo dico subito – è quello della variante automatica. Scelta non certo casuale.
Per esempio, l’art. 31-bis[58] del d.l. n. 77/’21 cit. stabilisce anzitutto che il procedimento ex art. 12, d.lgs. n. 387/’83 si applica «anche a tutte le opere infrastrutturali necessarie all’immissione del biometano nella rete esistente di trasporto e di distribuzione del gas naturale». Pertanto in forza dell’art. 12 appena richiamato si svolgerà una conferenza di servizi quale «procedimento unico al quale partecipano tutte le Amministrazioni interessate»[59], con rilascio di autorizzazione unica «che costituisce, ove occorra, variante allo strumento urbanistico»[60] nonché «titolo a costruire ed esercire l’impianto in conformità al progetto approvato»[61].
L’art. 31-bis parrebbe non voler lasciare spazio a dubbi interpretativi circa l’immediatezza della nuova conformazione territoriale derivante dall’adozione dell’autorizzazione unica: rispetto all’art. 12, d.lgs. n. 387/’03 ribadisce con più chiarezza, con più energia, che «il provvedimento finale deve prevedere anche l’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio dei beni in esso compresi nonché la variazione degli strumenti urbanistici ai sensi del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327».
Qui non è chiaro il significato del richiamo al t.u. espropri, poiché l’art. 19, commi 2-4, come abbiam visto, disegna uno schema a doppia battuta classico (con la caratteristica che la fase approvativa è accelerata a mezzo del silenzio assenso regionale). Forse il riferimento a quel t.u. dev’essere inteso in generale – l’art. 31-bis lo richiama invero nella sua interezza – come mera previsione o conferma dell’effetto di variante. Ma anche così interpretato mi sembra comunque un pleonasmo.
Propongo di dare alla disposizione un altro senso, più importante.
Essa par dialogare con quel diritto giurisprudenziale[62] che vorrebbe invece depotenziare l’automaticità di questa specie di variante richiedendo implausibili fasi successive alla decisione conferenziale in caso di dissenso comunale: secondo quest’orientamento, pur non avendo l’ente di prossimità un potere di veto «in considerazione dell’effetto – previsto direttamente dalla legge – di variante prodotto dalla conferenza e dall’autorizzazione unica», residuerebbe comunque in capo al Comune «un mero obbligo di recepimento»[63] onde assicurare la trascrizione di quella variante nell’armatura pianificatoria. Un atteggiamento – direi – improntato a vischiosità foriere di lungaggini perniciose in caso di resistenze strumentali da parte dell’ente territoriale: «questo […] orientamento, alimentato da una certa prudenza operativa delle amministrazioni locali, ha ricevuto una certa adesione nella prassi: la deliberazione consiliare ricognitiva del provvedimento autorizzatorio si è quindi tipizzata come atto amministrativo di pianificazione, “vincolato” nella prassi. Eppure, […] nessuna norma prevede una riserva “di ricognizione” in capo al Comune, che s’impone semmai solo per ragioni di ordinata tenuta della pianificazione generale. Anche l’anomalo atto ricognitivo comunale si rivela dunque più un prodotto della prudenza amministrativa, che non della logica sistematica»[64].
L’art. 31-bis in esame, nella lettura che propongo, intende chiarire che quella conferenziale è davvero la Letztentscheidung: non v’è più alcuno spazio, dopo, per appendici procedimentali di sorta, ancorché a contenuto vincolato negli esiti.
Nel successivo art. 44 (rubricato «opere pubbliche di particolare complessità o di rilevante impatto») sempre del nostro d.l. n. 77/’21 – questa volta si tratta delle infrastrutture ferroviarie, idriche e portuali indicate nell’allegato IV[65] dello stesso d.l.– cambia la costruzione dei periodi, ma non la sostanza. La sequenza e gli effetti sono eguali: conferenza di servizi e determinazione conclusiva che «tiene luogo […] della conformità urbanistica. […] La variante urbanistica, conseguente alla determinazione conclusiva della conferenza, comporta l’assoggettamento dell’area a vincolo preordinato all’esproprio […]» (così il comma 4)[66]. Nessuno spazio per propaggini e code trascrittive dell’intervento negli elaborati dello strumento urbanistico comunale: all’ente di prossimità spetta solo la gestione in salvaguardia.
Anche un’altra disposizione contenuta nel d.l. n. 77/’21 si muove nella scia del modello a variante automatica: è l’art. 5-bis[67] del d.l. 20 giugno 2017, n. 91 (convertito dalla l. 3 agosto 2017, n. 123), inserito dall’art. 57 del d.l. cit., dove si stabilisce anzitutto che «i progetti inerenti alle attività economiche ovvero all’insediamento di attività industriali, produttive e logistiche all’interno delle ZES […] sono soggetti ad autorizzazione unica […]. L’autorizzazione unica, ove necessario, costituisce variante agli strumenti urbanistici e di pianificazione territoriale, ad eccezione del piano paesaggistico regionale»; E che, a sua volta, «l’autorizzazione unica, nella quale confluiscono tutti gli atti di autorizzazione, assenso e nulla osta comunque denominati, previsti dalla vigente legislazione in relazione all’opera da eseguire, al progetto da approvare o all’attività da intraprendere, è rilasciata dal Commissario straordinario della ZES […] in esito ad apposita conferenza di servizi […]»; infine, si prevede che «il rilascio dell’autorizzazione unica sostituisce ogni altra autorizzazione, approvazione e parere comunque denominati e consente la realizzazione di tutte le opere, prestazioni e attività previste nel progetto».
Nel segno del PNRR la normazione si orienta oramai verso schemi che prescindono da un ruolo protagonista delle autonomie. Il potere comunale di veto, sostanzialmente riconosciuto dall’art. 8, d.P.R. n. 160/’10, è un ricordo lontano: insostenibile nella sua dimensione politica tutta calibrata sulle esigenze delle municipalità, di volta in volta percepite e interpretate dagli umori mutevoli dell’organo rappresentativo. La stessa visione prossimalista che accompagnò la riforma del 2001 suona remota[68].
È un tempo diverso. Dopo il d.l. n. 77/’21, a scandire ritmi cadenzati e urgenti provvedono normazioni ulteriori.
L’art. 6 (Approvazione dei progetti ferroviari e di edilizia giudiziaria)[69] del d.l. 6 novembre 2021, n. 152 (Disposizioni urgenti per l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e per la prevenzione delle infiltrazioni mafiose)[70]aveva introdotto l’art. 48-bis (Disposizioni urgenti in materia di infrastrutture ferroviarie e di edilizia giudiziaria) nel d.l. n. 77/’21: conferenza di servizi e determinazione conclusiva, la quale «perfeziona, altresì, ad ogni fine urbanistico ed edilizio, l’intesa tra Stato e regione o provincia autonoma, in ordine alla localizzazione dell’opera, ha effetto di variante degli strumenti urbanistici vigenti e comprende i titoli abilitativi rilasciati per la realizzazione e l’esercizio del progetto, recandone l’indicazione esplicita. La variante urbanistica, conseguente alla determinazione conclusiva della conferenza, comporta l’assoggettamento dell’area a vincolo preordinato all’esproprio». E i Comuni? I Comuni «provvedono alle necessarie misure di salvaguardia delle aree interessate e delle relative fasce di rispetto e non possono autorizzare interventi edilizi incompatibili con la localizzazione dell’opera».
La norma ha però avuto appena tre giorni di vita. La legge 9 novembre 2021, n. 156 – di conversione del d.l. 10 settembre 2021, n. 121 – ha introdotto il comma 7-bis nell’art. 10 di quel decreto: a sua volta, il comma 7-bis introduce un “nuovo” art. 48-bis, rubricato Interventi sulle infrastrutture energetiche lineari[71] nel d.l. n. 77/’21. Per la realizzazione di questi interventi la sequenza è ritmata (anche lessicalmente) in modo inesorabile: «il procedimento si svolge mediante unica conferenza di servizi»; la determinazione conclusiva ha effetto di variante e d’imposizione del vincolo espropriativo; al soggetto gestore dell’infrastruttura è attribuito il «potere espropriativo».
- Tempo di chiudere: nuovi unicismi per nuove primazie. – La normazione PNRR, sia pure con riferimento alle ipotesi (più o meno ben perimetrate) che disciplina, parrebbe aver raggiunto l’obbiettivo dell’unicità. In effetti, se raffrontiamo le regolazioni degli anni ’90 – così anacronistiche perché esitanti nel protendersi verso l’obiettivo finale: la decisione – con gli schemi imperiosamente disegnati nelle disposizioni che ho appena passato in rassegna, la risposta è chiara.
Possiamo infatti riconoscere – restando in una logica puramente operazionale, di processo – che ora le sequenze sono scandite meglio; come più definiti sono ruoli e poteri delle singole figure soggettive, pubbliche e private, che vi compaiono.
Ma son tutte immagini senza volto. Se nell’analisi ci fermassimo qui, trascureremmo un aspetto, forse il più importante: quali siano gli interessi concreti – di nuovo, pubblici e privati – che prevalgono o che invece recedono (sia pure in linea di tendenza) nel modello generale unicizzante tracciato dall’ecosistema normativo PNRR; quali cioè si rafforzano, quali s’indeboliscono.
L’unicità – procedimentale e decisoria – porta infatti con sé almeno il rischio dell’unicismo: di un interesse-Moloch cui gli altri sono offerti in sacrificio. Il tema è distinto da quello della tirannia del valore, ma gli è connesso.
Sulla Tyrannei der Werte[72] devo restare alla cornice unificante di questo mio scritto, cioè il governo del territorio. Innanzi agli occhi di un giurista “non giovanissimo” son già trascorse e sfiorite, per esempio, la stagione del d.P.R. n. 616/’77 con la sua visione pan-urbanistica, da prima; quella della pan-paesaggistica incarnata dalla l. n. 431/’85, di poi. Ora parrebbe il tempo del pan-ambientalismo. Ma a differenza forse delle prime due, quest’ultima stagione ha per vessillo un valore e logiche di tutela quanto mai ambigue: potrebbe trattarsi infatti di un vieto «ambientalismo industriale globalista, il quale vede all’attacco imprese industriali che, sventolando il vessillo di Kyoto e della lotta al mutamento climatico, perseguono loro immediati e concreti ritorni economici di profitto e mirano a realizzare parchi eolici sull’Appennino e campi di pannelli fotovoltaici nelle pianure»[73].
Ci si deve chiedere in somma se il principio di unicità, come realizzato sopra tutto in tanta parte del diritto legislativo PNRR, per ciò solo orienti (in modo sì indiretto, ma non per questo meno insidioso) verso approdi di tal fatta, dissimulando il sembiante di un tirannico unicismo pseudo-ambientalista; o se sia invece assiologicamente neutro, mera regola apicale di un asettico, imperturbato ordo productionis.
Difficile dare una risposta netta. In sé considerato, quel principio non mi sembra comportare la prevalenza necessaria di questo o quel valore-interesse pubblico: per restare nell’allegoria del sistema di governo, non mi si mostra come inarrestabile facitore occulto di tiranni.
Se mai, un effetto sostanziale dell’unicismo può esser colto su di un piano diverso. Escludendo la possibilità di procedimenti successivi a quello conferenziale, il principio in esame impedisce pure che nella seconda battuta si tendano – diciamo così – imboscate dal carattere puramente politico, le quali paralizzerebbero la determinazione conclusiva assunta nella fase precedente. In altri termini, se normativamente sospinta nella sua interezza all’interno del perimetro conferenziale, la volizione dell’organo rappresentativo territoriale conosce – o subisce, meglio – una sorta di Entpolitisierung. Il confronto dialettico con gli altri partecipanti produce una inevitabile amministrativizzazione della scelta, la quale tende a perdere i suoi connotati di valutazione solitaria e puramente discrezionale: di una decisione postuma, cioè, quasi graziosa e decretale che – come tale – rende difficoltoso un sindacato di legittimità incisivo, per quanto ben munita possa esser la giurisdizione coi suoi strumenti di scrutinio.
Ma, in senso opposto, dobbiamo domandarci se la sempre più evidente sterilizzazione del potere interdittivo un tempo (sin troppo) generosamente concesso all’ente prossimale non agevoli la marcia difficilmente resistibile di quello pseudo-ambientalismo industriale cui facevo cenno prima. Queste pericolose linee andamentali sono state già colte dal pensiero giuridico, secondo cui è in atto una «“guerra di logoramento” degli interessi sensibili, che vengono sempre più parificati a quelli ordinari»[74].
O, peggio, dobbiamo chiederci se non si vada più in generale delineando, per poi consolidarsi, una diversa e inesorabile gerarchizzazione degli interessi, conseguita peraltro in modi abbastanza surrettizi: cioè per via rispettivamente procedimentale ovvero organizzativa.
Vediamo il primo modo, che par realizzarsi mediante un uso conculcativo del modello conferenziale.
Un esempio, a mio avviso, è l’art. 55, comma 1, lett. a), n. 5), d.l. n. 77/’21 cit.: «l’autorizzazione prevista dall’articolo 21 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, relativa agli interventi di edilizia scolastica autorizzati nell’ambito del PNRR, è resa dall’amministrazione competente entro sessanta giorni dalla richiesta, anche tramite conferenza di servizi[75]. Il parere del soprintendente di cui all’articolo 146, comma 8, del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, è reso entro trenta giorni».
Dietro l’asettica tecnicità del modello si cela forse un disegno dissimulato. Alla conferenza di cui parla quella norma parteciperanno, nella concretezza dei processi reali, il Ministero dell’istruzione, l’ente territoriale proprietario dell’immobile e il Soprintendente unico (di cui adesso dirò). Ora, a fronte dell’imperiosa urgenza ministeriale di spendere le risorse ricevute dal PNRR; e della prevedibilissima, piena disponibilità dell’ente prossimale a utilizzarle per realizzare l’intervento programmato, potrebbe forse insorgere il nostro Soprintendente: collocato però, già dalla norma, in situazione di minoranza numerica, quindi strutturalmente soccombente. Nel modello unicista in esame, in somma, l’interesse storico-artistico tutelato dall’art. 21 cit. è – per definizione – recessivo: subordinato non tanto all’interesse specifico relativo all’ammodernamento delle strutture scolastiche, quanto a quello, più generale e per così dire innominato, connesso alla necessità di dimostrare capacità amministrativa nello spendere le risorse ingentissime concesseci da questa sorta di singolare Piano Marshall del nuovo secolo. E come in ogni terapia d’urgenza, varrà il primum vivere.
Il secondo modo, dicevo, è perseguito attraverso una gerarchizzazione organizzativa degli interessi. Di conio più tradizionale, esso par consistere in un unicismo decisionale di tipo sia spoliativo, sia avocativo-sostitutivo.
Pensiamo al ruvido art. 29, comma 2, d.l. n. 77/’21, che – come ho accennato – istituisce, pudicamente definendola «speciale», una Soprintendenza unica per il PNRR: la quale anzitutto esautora stabilmente le articolazioni ministeriali territoriali, spogliandole appunto delle funzioni di tutela ove si tratti di beni culturali e paesaggistici che siano «interessati da interventi previsti dal PNRR sottoposti a VIA in sede statale» oppure che «rientrino nella competenza territoriale di almeno due uffici periferici del Ministero».
Sempre in base al comma 2 cit., poi, «in caso di necessità e per assicurare la tempestiva attuazione del PNRR, la Soprintendenza speciale può esercitare, con riguardo a ulteriori interventi strategici del PNRR, i poteri di avocazione e sostituzione» nei confronti delle Soprintendenze periferiche. In breve, quest’organo centrale può espungerle – praticamente ad libitum – dalla gestione dell’interesse paesaggistico. Inutile, temo, chiedersi se l’intervento straordinario innalzerà il livello di tutela che la periferia aveva delineato prima dell’avocazione[76].
Ma dobbiamo attendere, onde esaminare la casistica che l’esperienza attuativa concreta ci consegnerà.
A proposito d’attese.
Sta per abbattersi sull’Italia una specie di bomba d’acqua. Una massa di liquidità dovrà – dovrebbe – essere trasformata[77] subito in opere infrastrutturali. Il sintagma “capacità amministrativa”, ora molto in uso anche nel diritto positivo, denota il requisito della prima fase: la sequenza decisione – progettazione – affidamento. Un paese dall’incedere realizzativo lento e tortuoso dovrebbe di colpo trasformarsi nel suo contrario[78]; e dovrebbe farlo senza peraltro trascurare interessi che immagino restino ancora meritevoli di tutela, come il paesaggio e l’ambiente.
Abbiam visto però che dopo la «stagion lieta» in cui il diritto – legislativo e giurisprudenziale – ha cercato di tutelare quegli interessi[79], è iniziato un autunno malinconico. Il distacco progressivo dell’ordinamento, sempre più lontano e insensibile nei confronti di questi valori, ha spianato la strada all’accelerazione impressa oggi dalla normazione PNRR: è passato molto tempo da quei malcerti procedimenti infrastrutturali dove ogni fase poteva nascondere un agguato esiziale. Oggi già la rubrica dell’art. 12, d.l. n. 77/’21 cit. – «Superamento del dissenso» – ha un qualcosa d’inquietante e oppressivo, un sapore vagamente totalitario.
Così che, salendo di quota, sarebbe riduttivo domandarsi se siamo di fronte a un diritto legislativo che trascrive evoluzionifisiologiche del principio di sussidiarietà nel governo del territorio; ovvero, in alternativa, se questa traiettoria sia effetto necessitato, e più o meno transitorio, delle emergenze prima economiche e poi sanitarie che hanno connotato gli anni ultimi.
Nessuna delle due, a mio avviso. Siamo invece di fronte a un Kulturkampf più generale: dove si contrappongono – lo chiarisce molto bene Carpentieri[80] – da una parte un finto «ambientalismo industriale della transizione ecologica», il quale «sopraffà e annulla la tutela paesaggistica, che ad essa obiettivamente si contrappone, poiché i pannelli fotovoltaici nelle campagne, le pale eoliche, le dighe del micro-elettrico, gli impianti a biomasse, raramente vanno d’accordo con la tutela del paesaggio; dall’altra parte, «chi ama e difende la qualità dei paesaggi agrari e montani italiani, insieme alle comunità di heritage territoriali, che faticosamente vorrebbero riscoprire e rivalutare le loro radici culturali, la loro identità, legate alla terra, all’agricoltura, ai mestieri tradizionali, e che puntano a un tipo di sviluppo diverso, più equilibrato, basato sulla filiera eno-gastronomica di eccellenza, sull’agriturismo, sullo sviluppo di modi nuovi di abitare, sulla rivitalizzazione degli antichi borghi, e perciò difendono il contesto paesaggistico che esprime e rispecchia questa cultura tradizionale».
Il diritto arriva dopo, senza poter guidare o arbitrare la contesa. I giuristi possono forse fare una cosa: smascherare i tentativi – sempre più numerosi, come abbiam visto – di gabellare per progresso “sostenibile” il sacco del territorio che si va perpetuando (e perpetrando) per ragioni di profitto.
Da qualche parte, in Cina, han costruito la Taihang solar farm. Si stima che 220mila tonnellate circa di anidride carbonica non saranno immesse in atmosfera. Molto bene. Ora però i pannelli fotovoltaici, a perdita d’occhio, si adeguano all’andamento orografico di quei luoghi, e si sostituiscono esattamente – gelidi e fedeli – all’avvicendarsi naturale di clivi e pianure.
Mi domando, allora, se ci attende un altro tempo. Fatto di una nuova, immite normalità. E di una bellezza innaturale.
Ma esagero nei timori, forse.
Pier Luigi Portaluri
Ordinario di Diritto amministrativo
nel Dipartimento di Scienze giuridiche
dell’Università del Salento
pubblicato il 10 gennaio 2022
[1] Tar Lecce, 18 luglio 2002, n. 3479, purtroppo inedita.
[2] In Ed. terr., 1999, n. 23, p. 9 ss., spec. p. 11.
[3] M. Mordenti – P. Monea, Ora l’impresa risparmia sui tempi e il Comune riorganizza gli uffici, in Guida agli Enti locali, 1999, n. 3, p. 37 ss., spec. p.40
[4] Ho aggiunto i corsivi.
[5] Le «Linee guida per l’autorizzazione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili», approvate dal Ministro dello sviluppo economico col decreto 10 settembre 2010, precisano che «ove occorra, l’autorizzazione unica costituisce di per se variante allo strumento urbanistico» (ho aggiunto il corsivo): nessuna coda procedimentale è dunque necessaria al fine di produrre quell’effetto giuridico.
Cfr. Tar Abruzzo, 14 giugno 2021, n. 328: «l’autorizzazione alla realizzazione di un impianto di energia elettrica alimentato da fonti rinnovabili in una zona in cui per i divieti contenuti negli strumenti urbanistici tale opera non sarebbe realizzabile determina la variazione della destinazione urbanistica della zona e rende conforme alle disposizioni urbanistiche la localizzazione dell’impianto (Cons. Stato, V, 15 gennaio 2020, n. 377; V, 13 marzo 2014, n. 1180, anche in presenza di parere negativo del Comune), senza la necessità di alcun ulteriore provvedimento di assenso all’attività privata. Tale effetto legale non comporta deroga al riparto di competenze e, segnatamente, alle competenze dei Comuni nel governo del territorio necessariamente coinvolti, invece, nella conferenza di servizi e tenuti in detta sede ad esercitare le prerogative di tutela dell’ordinato assetto urbanistico (e, in generale, degli interessi della comunità di riferimento), senza, però, che ne possa per ciò solo venire paralizzata l’azione amministrativa, nel caso, come quello qui esaminato, in cui il Comune opponga ragioni di impedimento superabili dall’Autorità procedente (Consiglio di Stato sez. V, 29/04/2020, n. 2724). […] il parere negativo, eventualmente espresso dal Comune, [ha] rilevanza solo se motivato su presupposti diversi da quelli che giustificano le scelte generali di governo del territorio».
[6] Cfr. Tar Pescara, 14 giugno 2021, n. 328: «Occorre in proposito dar conto dell’orientamento, ormai costante, della giurisprudenza secondo il quale l’autorizzazione alla realizzazione di un impianto di energia elettrica alimentato da fonti rinnovabili in una zona in cui per i divieti contenuti negli strumenti urbanistici tale opera non sarebbe realizzabile determina la variazione della destinazione urbanistica della zona e rende conforme alle disposizioni urbanistiche la localizzazione dell’impianto (Cons. Stato, V, 15 gennaio 2020, n. 377; V, 13 marzo 2014, n. 1180, anche in presenza di parere negativo del Comune), senza la necessità di alcun ulteriore provvedimento di assenso all’attività privata. Tale effetto legale non comporta deroga al riparto di competenze e, segnatamente, alle competenze dei Comuni nel governo del territorio necessariamente coinvolti, invece, nella conferenza di servizi e tenuti in detta sede ad esercitare le prerogative di tutela dell’ordinato assetto urbanistico (e, in generale, degli interessi della comunità di riferimento), senza, però, che ne possa per ciò solo venire paralizzata l’azione amministrativa, nel caso, come quello qui esaminato, in cui il Comune opponga ragioni di impedimento superabili dall’Autorità procedente (Consiglio di Stato, sez. V, 29/04/2020, n. 2724). Conferma la tesi accolta in giurisprudenza il fatto che l’individuazione delle “aree non idonee” all’insediamento degli impianti alimentati da fonti rinnovabili è sottratta alla competenza dei Comuni in quanto, ai sensi del paragrafo 1.2. del d.m. 10.9.2010 (Linee guida per l’autorizzazione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili) le sole Regioni e Province autonome possono porre limitazioni e divieti in atti di tipo programmatorio o pianificatorio per l’installazione di specifiche tipologie di impianti alimentati da fonti rinnovabili ed esclusivamente nell’ambito e con le modalità di cui al paragrafo 17. La disposizione, da leggersi unitamente all’art. 12 del d.lgs. 387/2003, che attribuisce al provvedimento di autorizzazione unica l’effetto di variante allo strumento urbanistico generale, pone chiaramente un limite, nei sensi sopra spiegati, alla competenza pianificatoria dei Comuni in materia di localizzazione di impianti di produzione di biometano e spiega perché il parere negativo, eventualmente espresso dal Comune, abbia rilevanza solo se motivato su presupposti diversi da quelli che giustificano le scelte generali di governo del territorio. Se dunque non è consentito al Comune di individuare le “aree non idonee” in sede di pianificazione, a fortiori, esso non può opporre un divieto di localizzazione in sede di esame del singolo progetto esprimendo parere negativo».
[7] Il corsivo non è ovviamente originale.
[8] Tar Venezia, 1° giugno 2017, n. 549 – che nega l’esistenza di un Wesensgehalt comunale in materia – illustra bene le incertezze giurisprudenziali sul punto e merita dunque la trascrizione di alcuni suoi passi. «[…] si pone il problema di stabilire se, ed eventualmente con quale sforzo motivazionale, la Provincia […] potesse autorizzare, con effetto di variante urbanistica, l’ampliamento e il potenziamento dell’impianto di recupero rifiuti […], nonostante il dissenso espresso dal Comune nell’ambito della Conferenza dei servizi […]. Sul tema la giurisprudenza amministrativa non è univoca, fronteggiandosi due opposti orientamenti. […] Secondo un primo indirizzo (Tar Piemonte n. 480/2017; Tar Parma n. 196 del 2015; Tar Catanzaro n. 929/2013) la Conferenza di servizi prevista dalle leggi regionali e statali (es. art. 27 del d.lgs. n. 22/1997; art. 208 del d.lgs. 152/2006) succedutesi in materia di autorizzazione d’impianti per trattamento e recupero di rifiuti si presenta come un particolare modulo procedimentale che ha l’effetto di concentrare i pareri, i nulla osta e gli assensi in un unico contesto formale, mantenendo però immutate le competenze riservate dalla legge alle varie Amministrazioni. In tale ottica, seppure l’atto finale del rilascio dell’autorizzazione risulta di competenza della Provincia o della Regione, la stessa non potrebbe però invadere competenze riservate ad altri enti e, in particolare, non potrebbe invadere la competenza relativa alla pianificazione urbanistica riservata al Comune, deliberando un’autorizzazione comportante una variante al PRG contro il parere di quest’ultimo motivato dal contrasto con le prescrizioni urbanistiche sulla destinazione delle aree comunali. In altri termini le norme in discorso, dettando il modulo procedimentale della conferenza di servizi, non hanno certamente sottratto al Comune la competenza, riservatagli in via esclusiva, ad esprimersi in ordine alle questioni di tipo urbanistico, ma ha inteso semplificare la procedura evitando, in caso di parere positivo del Comune, l’avvio dell’ulteriore procedura di variante urbanistica. In particolare, lo specifico iter procedimentale previsto dalle norme in commento, caratterizzato dall’indizione di una Conferenza di servizi provinciale o regionale, non avrebbe consentito alla P.A. procedente di rilasciare l’autorizzazione in presenza di un parere negativo del Comune che aveva evidenziato l’incompatibilità del progetto con gli strumenti di pianificazione urbanistica comunale, dando parere negativo. Diversamente opinando, si osserva, risulterebbe illegittimamente invasa una sfera di competenza amministrativa, quella della pianificazione urbanistica, prettamente comunale. La pianificazione urbanistica a livello locale rientrerebbe, difatti, nella sfera di competenza del Comune che le succitate norme, limitandosi a prevedere una Conferenza di servizi in sede istruttoria, non avrebbero modificato. E, invero, seppure alla Provincia è attribuita la competenza, previa convocazione di una Conferenza di servizi, relativa al rilascio dell’autorizzazione alla realizzazione dell’impianto, la Provincia stessa non potrebbe deliberare, senza l’assenso del Comune, la localizzazione dell’impianto in contrasto con le previsioni del PRG, stante la necessità di operare una variante allo strumento urbanistico (prevista peraltro come effetto automatico dell’intervenuta autorizzazione). Un opposto orientamento, ben patrocinato da Tar Liguria, n. 723 del 2012, reputa, invece, che la previsione espressa di una competenza decisoria in capo alla Provincia in ordine al rilascio dell’autorizzazione, accompagnata dalla previsione di una Conferenza di servizi per raccogliere i pareri degli altri Enti interessati, spieghi effetti sulle competenze amministrative. Le norme in questione impongono l’indizione obbligatoria di una Conferenza di servizi, dove tutti gli Enti interessati devono essere convocati, ma espressamente affidano alla Provincia la decisione finale sull’autorizzazione dell’impianto, sia pure all’esito della conferenza stessa. L’attribuzione di tale potere di autorizzazione del progetto deve essere intesa, salvo espresse e specifiche previsioni derogatorie, come inerente a ogni aspetto autorizzatorio di localizzazione e realizzazione dell’impianto. […] Al riguardo, la disposizione secondo cui l’approvazione del progetto costituisce variante urbanistica è idonea a svolgere effetti in ordine alle competenze sul governo del territorio. Tale previsione non si limita ad evitare ulteriori sub procedimenti, quali quello inerente all’approvazione di una variante al PRG nella mera ottica di concentrazione procedimentale, bensì si pone come norma che consente alla determinazione assunta in sede finale dalla Provincia di incidere direttamente sullo strumento urbanistico generale, ai fini della localizzazione dell’impianto. In sostanza, tale norma consente che la Provincia competente possa, all’esito della Conferenza di servizi, decidere anche in ordine alla variazione del PRG, fatta salva la necessità di motivare sul punto, in ossequio al principio generale dell’obbligo di motivazione del provvedimento amministrativo. […] Non può dirsi, inoltre, in generale, che il Comune abbia una competenza esclusiva sulla pianificazione territoriale essendo, in generale, affidati compiti di pianificazione locale anche alla Provincia (che elabora i piani territoriali di coordinamento provinciali) e alla Regione che, oltre a formare i piani territoriali di coordinamento regionali, interviene attivamente nel procedimento di formazione dei Piani Regolatori Generali e delle loro varianti, provvedendo alla loro approvazione finale ed, in tale sede, può alla luce della normativa attuale, addirittura imporre delle modifiche dei piani adottati. Ciò spiega come ben giustificata possa essere la lettura della norma in commento nel senso di attribuire la competenza finale della decisione sulla localizzazione in capo alla Provincia, senza necessità del consenso del Comune, pur nell’ipotesi di necessità di variante allo strumento urbanistico generale, salvo l’obbligo di motivazione. Si osserva, infine, come la stessa Corte Costituzionale ha rilevato che “la garanzia costituzionale del principio autonomistico, previsto dall’art. 5 e 128 della Costituzione, può dirsi rispettata ogniqualvolta il procedimento finalizzato all’approvazione degli strumenti urbanistici sia articolato in modo tale da assicurare una sostanziale partecipazione allo stesso degli enti il cui assetto territoriale è determinato dagli strumenti urbanistici in questione, rilevando altresì che l’individuazione dei modi nei quali tale coinvolgimento può avvenire è rimesso alla discrezionalità del legislatore” (Corte costituzionale, 21 ottobre 1998, n. 357). Quello che appare essenziale è che il Comune non sia completamente pretermesso dalle scelte pianificatorie direttamente incidenti sul suo territorio, circostanza che non può affermarsi nel caso di specie essendo lo stesso legittimato a partecipare alla Conferenza di servizi. Inoltre la visione autonomistica, dedotta dal Comune a salvaguardia delle sue competenze, non può non tener conto dei preminenti principi di sussidiarietà ed adeguatezza, ormai sanciti a livello costituzionale nell’art. 118, che devono ispirare il riparto delle competenze amministrative a livello locale. Tali principi ben possono giustificare disposizioni di rango legislativo che prevedano l’intervento di un ente territoriale di livello superiore nell’iter di autorizzazione di un impianto come quello in questione, con effetto incidente anche sul piano delle competenze in materia a pianificazione urbanistica, in particolare, attribuendo alla Provincia la decisione finale per quanto riguarda una variante urbanistica necessaria per la localizzazione dell’impianto, nell’ambito di un procedimento in cui il Comune è comunque chiamato a intervenire, partecipando alla Conferenza di servizi. Tale ricostruzione, che non consente al Comune di porre un veto insuperabile alla localizzazione dell’impianto, risulta peraltro in linea con l’evoluzione della normativa sull’autorizzazione degli impianti di trattamento dei rifiuti di cui all’art. 208 (Autorizzazione unica per i nuovi impianti di smaltimento e di recupero dei rifiuti) del Decreto Legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), così come modificato dal Decreto Legislativo 3 dicembre 2010, n. 205, che attualmente prevede ancora la convocazione di una Conferenza di servizi (da parte della Regione), e che l’approvazione alla realizzazione e la gestione dell’impianto, sostituisca ad “ogni effetto visti, pareri, autorizzazioni e concessioni di organi regionali, provinciali e comunali, costituisce, ove occorra, variante allo strumento urbanistico e comporta la dichiarazione di pubblica utilità, urgenza ed indifferibilità dei lavori”» (i corsivi sono aggiunti da me).
La sentenza è stata confermata da Cons. Stato, 10 agosto 2020, n. 4991: «Va dunque condiviso il ragionamento seguito dal primo giudice, nella parte in cui ravvisa la necessità di motivare le ragioni di pubblico interesse sottese ad una scelta pianificatoria provinciale che si pone in aperto contrasto rispetto alla posizione assunta dal Comune in sede conferenziale, nonché rispetto alla formale variante urbanistica comunale, la quale denota la forte determinazione del Comune nel volere trasferire l’impianto in altro sito in considerazione del particolare contesto paesaggistico ed ambientale dell’area. Non è condivisibile la tesi difensiva propugnata dall’appellante, secondo cui il primo giudice avrebbe introdotto un onere di motivazione rafforzata che nemmeno la norma di legge prevede. Al contrario, la norma richiamata è significativa della volontà del legislatore di coordinare in modo armonico l’esercizio dei concorrenti poteri di pianificazione spettanti ai diversi livelli di governo del territorio e, secondo il consolidato indirizzo ermeneutico seguito dalla giurisprudenza costituzionale, appare anzi doverosa la leale collaborazione degli enti territoriali nel rispetto delle reciproche prerogative, anche costituzionalmente tutelate. La norma di legge àncora ad un preciso e predeterminato parametro di giudizio il contenuto dello sforzo di motivazione, pretendendo che la stessa sia adeguata. Nel caso all’esame, come rilevato dal primo giudice, il provvedimento provinciale impugnato è stato difettoso in punto di motivazione, perché ha mancato di illustrare, in modo per l’appunto adeguato, le ragioni per le quali il dissenso manifestato dal Comune di […] è superabile».
Nello stesso senso anche Tar Napoli, 14 luglio 2020, n. 3086: «la localizzazione dell’impianto può essere autorizzata anche su un’area incompatibile secondo le previsioni dello strumento urbanistico, il quale, in tal caso, resta automaticamente variato in senso conforme alla destinazione dell’impianto autorizzato, senza necessità di attivare previamente la complessa procedura dello strumento urbanistico prevista dalla normativa di settore».
[9] R. Bin, Piani territoriali e principio di sussidiarietà, in Le Regioni, 2001, n. 1, p. 114 ss., spec. p. 114.
[10] Il che non esclude, peraltro, che possa essere la Regione ad insorgere avverso regolazioni (statali) che invadano competenze riservate a Comuni e Province, con ciò facendo valere la propria posizione di autonomia «garantita mediante l’attribuzione ad essa di una istituzionale competenza legislativa avente lo scopo di assicurare alla comunità regionale, in via di regolamentazione ad opera del suo ente esponenziale – con valenza territoriale e per date materie – un trattamento normativo adeguato alle sue peculiarità» (C. cost. 12 giugno 1991, n. 276).
Diversa – ma connessa – questione si pone nel caso in cui una legge regionale, pure se meglio strutturata a protezione dell’interesse pubblico tutelato anche da una legge dello Stato, invada le competenze di quest’ultimo: è il caso deciso da C. cost. 16 luglio 2019, n. 179, di cui dirò più avanti. Su questi aspetti v. M. A. Sandulli, Controlli sull’attività edilizia, sanzioni e poteri di autotutela, in federalismi.it, p. 36.
[11] C. cost. 27 luglio 2000, n. 378, in Urb. app., 2001, n. 11, p. 1183 ss. (con nota di G. Manfredi, Efficacia dei piani urbanistici territoriali e vincoli paesistico-ambientali); in Le Regioni, 2001, n. 1, p. 106 ss. (con nota di R. Bin, Piani territoriali e principio di sussidiarietà, cit.; nonché di T. Groppi, I rapporti Regioni – enti locali tra Corte costituzionale e giudici comuni).
[12] C. cost. n. 378/’00, cit.
[13] C. cost. 4 aprile 1990, n. 157, in Riv. giur. ed., 1990, I, p. 181 ss., nonché in Le Regioni, 1991, n. 3, p. 695 ss. (con nota di G. Pastori, Legislazione regionale e competenze urbanistiche comunali).
[14] C. cost. n. 157/’90, cit.: in tal modo – prosegue la Corte – «la Regione, con l’approvazione dei progetti, assume in proprio l’esercizio di una competenza di natura provvedimentale attinente alla sfera edilizia che esula dall’ambito delle attribuzioni più generali relative all’uso del territorio, affidate alla stessa Regione dagli artt. 80 ss. del d.P.R. n. 616 del 1977».
L’inibizione all’esercizio di poteri regionali ordinati all’adozione di provvedimenti specifici è stata criticata da quella dottrina (G. Pastori, Legislazione regionale e competenze urbanistiche comunali, cit.) – certo non sospetta di posizioni antimunicipaliste – che, pur condividendo l’impianto di fondo della decisione, ne ha evidenziato gli eccessi, insiti nell’immotivata e irrazionale preclusione per l’interesse regionale di «trovare adeguata proiezione, oltre che nelle attribuzioni di pianificazione generale, anche in attribuzioni di progettazione puntuale» (p. 704 s.).
Sostanzialmente analoga la posizione della Corte nella successiva sentenza 24 maggio 1991, n. 212: la Consulta – ritenuta l’identità della fattispecie – richiama espressamente la propria precedente decisione n. 157/’90 cit., precisando altresì che «un potere che si atteggia nel modo sopra illustrato non può certo considerarsi equivalente al potere decisionale che spetta al diverso soggetto che rimane dominus del procedimento e titolare dell’atto finale». Secondo la Corte, la garanzia del principio autonomistico previsto dagli artt. 5 e 128 Cost. impone «la necessità che il procedimento che incide sull’approvazione ovvero sulla modifica degli strumenti urbanistici si articoli in maniera tale da assicurare la sostanziale partecipazione, allo stesso, degli enti il cui assetto territoriale è determinato proprio dagli strumenti in questione» (C. cost., 24 febbraio 1994, n. 61, in Riv. giur. amb., 1995, p. 54 ss, con nota di A.G. Arabia).
[15] C. cost. 8 aprile 1997, n. 83, in Giur. cost., 1997, p. 804 ss. (con note di T. Groppi, Principio costituzionale di autonomia locale e Regioni a statuto speciale: la Corte individua limiti al legislatore regionale validi anche per le leggi statali? e di M. Esposito, Autonomia comunale e governo del territorio), la quale prosegue richiamando i propri (già citati nel testo) precedenti, e ribadendo dunque che «non potrebbero le Regioni disporre la trasformazione dei poteri comunali in ordine all’uso del territorio in funzioni meramente consultive prive di reale incidenza, o in funzioni di proposta o ancora in semplici attività esecutive (sentenze n. 61 del 1994 e n. 212 del 1991)».
[16] Le sentenze n. 157/’90 e n. 212/’91 concernevano infatti procedimenti per l’approvazione di interventi per la realizzazione di insediamenti turistici e alberghieri in previsione dello svolgimento dei campionati mondiali di calcio del 1990.
[17] Le pronunce n. 61/’94 e n. 83/’97 riguardavano rispettivamente i procedimenti di individuazione, per opera della Regione, delle zone di protezione delle risorse idriche nonché di approvazione, da parte della Provincia di Trento, di programmi integrati per l’attuazione di interventi diretti alla riorganizzazione della mobilità.
[18] Cfr. C. cost., 3 novembre 1988, n. 1010, in Le Regioni, 1990, n. 1, p. 195 ss. (con nota di D. Corletto, Procedimento di approvazione dei piani urbanistici e principio autonomistico).
[19] D’altra parte, la legittimazione generale di un siffatto modus operandi delle Regioni discende – nel pensiero della Corte – proprio dal «ruolo di centralità che esse vengono ad assumere nel sistema delle autonomie locali (sent. n. 343 del 1991), in particolare mediante la pianificazione e la programmazione territoriale»: ne deriva, «una volta che il nuovo strumento è previsto da una legge dello Stato come un tipo uniforme di intervento nel territorio», che «lo stabilire in concreto i procedimenti per la sua formazione – in relazione alle finalità che quei programmi devono attuare e fatti salvi i principi fondamentali, ai sensi del primo comma dell’art. 117 della Costituzione – spetta alla legge regionale, che risulterebbe, altrimenti, svuotata di ogni significato». Questo, e i due passi riportati nel testo, sono tratti da C. cost., 27 luglio 1995, n. 408.
[20] C. cost., 28 ottobre 2021, n. 202 (corsivo aggiunto da me).
[21] C. cost. n. 378/’00, cit.
[22] Il revirement rispetto alle precedenti affermazioni della Corte non è sfuggito alla dottrina: cfr. R. Bin, Piani territoriali e principio di sussidiarietà, cit., p. 119; A. Barone, La nuova governance del territorio, cit., p. 58 ss.
[23] In quanto – puntualizza la Consulta nella decisione n. 378/’00 in esame – «caratterizzato dalla pressoché totale inutilizzazione dello strumento di coordinamento e da una modesta pianificazione urbanistica».
[24] I tre passi riportati nel testo sono pure tratti da C. cost. n. 378/’00, cit.: corsivazione non originale.
[25] Rinvio per brevità al mio Contro il prossimalismo nel governo del territorio, in nuoveautonomie.it, 2021, p. 81 ss. e in giustizia-amministrativa.it.
[26] Non mi pare peraltro che nella sentenza del giudice a quo (Consiglio di Stato n. 5711/’17) si legga proprio questo.
[27] Entrambi i corsivi sono aggiunti da me.
[28] Cfr. G. Gardini, Riordino istituzionale e nuove forme di governo locale, in L. Vandelli, G. Gardini, C. Tubertini (a cura di), Le autonomie territoriali: trasformazioni e innovazioni dopo la crisi, Rimini, Maggioli, 2017, p. 67 ss., spec. p. 69. Con riferimento agli assetti ordinamentali (finalmente) più centralisti, conseguenti allo scenario di crisi economico-sociale iniziata negli anni dieci di questo secolo, Gardini nota che «l’autonomia cessa di essere una virtù e assume i contorni del vizio». A me pare invece che, in generale, né l’autonomia, né il centralismo possano essere a priori qualificati assiologicamente in un senso o nell’altro. Se poi guardiamo, in particolare, al governo del territorio, avrei sì qualche difficoltà nel mantenere una posizione di indifferenza valutativa: ma orientandomi in senso opposto a quello indicato da Gardini.
[29] Puntualmente ignorati. L’antidoto, in Italia tradizionalmente inutilizzato, lo indica S. Settis, L’Italia delle fragilità, in La Stampa, 25 maggio 2021: «Non c’è sfera di cristallo, non c’è negromante da cui invocare risposte. Abbiamo (avremmo) uno strumento più efficace per interrogarci su questo tema, che compare e scompare nel discorso pubblico come un perenne, ostinato fiume carsico. Questo strumento è (sarebbe) la memoria».
[30] Condivido il dissenso di M. Renna, L’allocazione delle funzioni normative e amministrative, in G. Rossi (a cura di), Diritto dell’ambiente, Torino, Giappichelli, 2021, p. 151: «Applicare il principio di sussidiarietà, invero, non significa affatto privilegiare incondizionatamente i livelli di governo locali nella distribuzione delle competenze. […] Insomma, il principio di sussidiarietà verticale ha in realtà una valenza intrinsecamente e fisiologicamente ambivalente, poiché, a seconda dell’ampiezza e della consistenza delle funzioni che devono essere conferite, la sua applicazione può sospingere dette funzioni sia “verso il basso” che “verso l’alto”. […] In materia ambientale, quindi, è proprio una rigorosa applicazione del principio di sussidiarietà che, per le ragioni sopra esposte, dovrebbe portare all’allocazione di funzioni di tutela a un livello mediamente “alto”».
[31] Di regola medio-piccola, nel mosaico geoamministrativo italiano.
[32] Devo fare subito una precisazione, forse ovvia. La mia lettura antiprossimalista concerne la gestione ordinaria dei processi reali relativi al territorio. Il quadro cambia se invece guardiamo a episodi trasformativi che sono caratterizzati da una doppia eccezionalità: la loro natura interventuale e – ancor più – la loro riferibilità ad agglomerati urbani di grandi dimensioni, come Roma o Milano. Mi riferisco alle riflessioni di P. Urbani, Ripensare la città o la città contemporanea? Note a margine, in Astrid, 2021, p. 7, secondo cui «il punto centrale delle recenti vicende urbanistiche è quello della riduzione della discrezionalità dell’amministrazione locale – favorito da interventi legislativi statali e regionali recenti – a vantaggio di interessi superlocali che spesso non hanno nulla a che fare con l’interesse pubblico sovraordinato, ma piuttosto, con interessi di parte per lo più privati che – qualora realizzati – contribuiscono ad aumentare le fratture urbane più che a risanarle, sotto le mentite spoglie della rigenerazione urbana». Peraltro, sempre con riferimenti a questi casi lo stesso Urbani subito dopo avverte: «non è sempre vero – come si è detto – che il comune sia espropriato di determinate funzioni in merito alla determinazione di un assetto condiviso del territorio. In realtà l’ente locale primario – come confermato più volte dalla Corte costituzionale riprendendo l’art. 114, 2° co. e l’art. 118 Cost. – dispone di tutti gli strumenti per governare il territorio, ma in molti casi mancano le politiche».
[33] Lo riconosce anche G. Gardini, Riordino istituzionale, cit., p. 75, ancorché in un quadro valutativo opposto al mio: «l’idea posta a fondamento della riforma del Titolo V non era solo quella di potenziare l’autonomia dei territori, regioni in testa. A fianco di questo obiettivo, senz’altro prioritario, vi era anche l’idea di rompere l’uniformità amministrativa, riducendo la consistenza delle funzioni amministrative assegnate allo Stato, potenziando il profilo dei Comuni come enti amministrativi, valorizzando il ruolo regionale di programmazione e legislazione».
[34] V. De Lucia, Urbanistica sostenibile e non sostenibile. Un confronto tra città, in Meridiana, 2001, p. 45 ss., spec. p. 46: «Certamente, non può farsi di tutt’erba un fascio, Ferrara non è Agrigento, le coste della Toscana non sono quelle della Calabria. In nessuna città olandese, inglese, francese o tedesca ci sono quartieri come il Vomero o Monte Mario».
[35] P. Falletta, L’irrisolto equilibrio tra regionalismo e municipalismo in materia di pianificazione urbanistica, in Giur. cost., 2019, p. 2094 ss., spec. p. 2101 s.; M. Gorlani, Il nucleo intangibile dell’autonomia costituzionale dei Comuni, in forumcostituzionale.it, 2020, n. 1, p. 1 ss., spec. p. 15 s., legge la sentenza in senso più protettivo delle prerogative comunali: «resta il prezioso monito della Corte costituzionale al legislatore regionale (ma anche a quello statale, per quel che si è detto) a varare normative maggiormente rispettose dell’autonomia degli enti locali, e a considerare questi come i naturali attuatori delle scelte politiche compiute a livello regionale, e non come “controparti” da limitare come possibili oppositori di quelle stesse scelte».
[36] Cfr. S. Tuccillo, La Corte costituzionale e i limiti all’autonomia regionale nella disciplina degli istituti del procedimento amministrativo. Livelli essenziali delle prestazioni e strumenti di semplificazione, in M.A. Sandulli (a cura di), Princìpi e regole dell’azione amministrativa, Milano, Giuffrè, 2020, p. 171 ss., spec. p. 174: «l’iter argomentativo della Consulta si è appuntato su considerazioni di ordine sistematico sulla ratio fondante l’istituto per poi giungere ad affermare che, in quanto strumento di semplificazione riconducibile ai LEP, la conferenza non può subire modifiche da parte del legislatore regionale se non nei limiti in cui le stesse siano idonee a introdurre ulteriori livelli di tutela e dunque, nella specie, ad accrescere il tasso di semplificazione/accelerazione procedurale».
[37] O, se si preferisce, caratterizzata da una discrezionalità amministrativa latissima.
[38] Cfr. Cons. Stato, 18 febbraio 2016, n. 650: «Al riguardo, la Sezione ritiene di dover aderire al prevalente indirizzo giurisprudenziale secondo cui, Cons. Stato in tema di variante semplificata ex art. 5 del d.P.R. nr. 447/1998, l’eventuale esito positivo della Conferenza di servizi non è in alcun modo vincolante per il Consiglio Comunale, il quale, siccome organo titolare della potestà pianificatoria, resta pienamente padrone della propria autonomia e discrezionalità, potendo discostarsi dalla proposta di variante e respingerla senza alcun dovere di motivazione puntuale o “rafforzata”, in quanto l’esito della Conferenza non comporta il sorgere di alcun affidamento né di aspettative qualificate in capo al proponente (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 4 novembre 2013, nr. 5292; id., sez. IV, 19 ottobre 2007, nr. 5471; id., 27 giugno 2007, nr. 3772; id., sez. VI, 26 giugno 2007, nr. 3593; id., sez. IV, 14 aprile 2006, nr. 2170). Si aggiunge altresì che tali conclusioni non mutano neanche per il fatto che nel corso della Conferenza il rappresentante del Comune abbia assunto posizione favorevole alla variante, circostanza che comunque non limita in alcun modo l’organo consiliare nelle sue determinazioni(cfr. Cons. Stato, sez. VI, 27 luglio 2011, nr. 4498). Tale rigoroso indirizzo appare del tutto condivisibile, perché coerente con la natura di mera “proposta di variante” che il legislatore attribuisce alla determinazione conclusiva della Conferenza, e quindi con l’ordinario assetto dei rapporti fra proposta e approvazione in sede di pianificazione urbanistica, laddove è appunto al Consiglio Comunale che è di regola riconosciuta la valutazione globale e definitiva; d’altra parte, il nucleo della potestà pianificatoria non può essere limitato a mere valutazioni tecniche circa la compatibilità di determinate destinazioni urbanistiche con le caratteristiche di una specifica area, involgendo più complessive e globali scelte di governo del territorio, estese anche al suo assetto generale ed al suo sviluppo de futuro ed involgenti giudizi latamente discrezionali: di modo che risulterebbe illogico e contraddittorio, proprio in ipotesi di variante “semplificata” (e, quindi, connotata da procedura accelerata e meno garantita) menomare tale potestà riducendola alla sola possibilità di confutare nel merito le valutazioni tecniche della Conferenza di servizi» (ho aggiunto il corsivo).
[39] A questo proposito potrei valorizzare, in via secondaria, anche un dato letterale. L’art. 8 parla di «Raccordi procedimentali con strumenti urbanistici»; ancor più chiara e significativa è la rubrica dell’antesignano art. 5, d.P.R. n. 447/’98: «Progetto comportante la variazione di strumenti urbanistici». Più pudicamente dichiarato nella norma del 2010, invece esplicito in quella del 1998, il fine di conseguire la variante coagula – unifica appunto – le previsioni racchiuse nei due articoli.
[40] Ecco i due passi: «la circostanza che l’esito della conferenza prevista all’art. 8 del d.P.R. 160 del 2010 richieda un successivo procedimento di variante urbanistica, nel quale interverrà la relativa determinazione dell’organo politico, non altera la struttura della conferenza, alla quale l’organo politico nondimeno partecipa. […] Così considerata, dunque, la deliberazione del Consiglio comunale non costituisce affatto una fase ulteriore del medesimo procedimento ma inerisce, come detto, a un procedimento distinto, il quale del resto non elide la necessità della partecipazione dello stesso organo politico alla previa conferenza di servizi» (corsivi aggiunti da me).
[41] R. Bin, Piani territoriali e principio di sussidiarietà, cit., p. 117.
[42] R. Bin, Piani territoriali e principio di sussidiarietà, cit., p. 118.
[43] L’ordo productionis sarebbe così esposto a rischi di paralisi causati – proprio come negli ambiti settoriali asseritamente unicisti che stiamo ripercorrendo – da poteri comunali di veto: il che equivale ad affermare l’illegittimità costituzionale di modelli che affidino la regolazione di interessi di livello sovra- o metacomunale solo a intese forti con gli enti “minori” (cfr. in termini C. cost. n. 83/’97 e n. 357/’98).
[44] Così A. Ruggeri, Ragionevolezza e valori, attraverso il prisma della giustizia costituzionale, in Diritto e società, 2000, p. 569 ss., spec. p. 586.
[45] A. Ruggeri, Ragionevolezza e valori, cit., p. 586, il quale – nel quadro della sua impostazione, come riassunta nel testo – precisa che un metodo siffatto d’inquadramento della problematica si risolverebbe in una «prospettiva formale-astratta», assai riduttiva poiché inidonea «a cogliere, il più delle volte, se non la crosta delle questioni di diritto costituzionale sottoposte al giudizio della Corte».
[46] A. Ruggeri, Ragionevolezza e valori, cit., p. 587.
[47] La prospettiva, cioè, presa in esame dalla ricordata giurisprudenza costituzionale che ha in qualche modo consentito l’elaborazione di uno statuto del principio di cooperazione sul versante Regioni – enti territoriali.
[48] Profilo diverso è, ovviamente, quello che concerne la regolazione dei procedimenti successivi che hanno una funzione oppositiva nei confronti della decisione finale. Si tratta di procedimenti ad attivazione solo eventuale e con legittimazione attiva limitata: quindi distinti, pur se connessi, a quello cui sono collegati da un nesso diciamo così “rimediale”.
[49] Recante «Governance del Piano nazionale di ripresa e resilienza e prime misure di rafforzamento delle strutture amministrative e di accelerazione e snellimento delle procedure», convertito dalla l. 29 luglio 2021, n. 108.
[50] L’art. 8 cit. si limita a stabilire che «qualora l’esito della conferenza di servizi comporti la variazione dello strumento urbanistico, ove sussista l’assenso della Regione espresso in quella sede, il verbale è trasmesso al Sindaco ovvero al Presidente del Consiglio comunale, ove esistente, che lo sottopone alla votazione del Consiglio nella prima seduta utile». Come si vede, non è espressamente prevista una fase partecipativa, che comunque la prassi riteneva pacifico svolgere a valle della decisione conferenziale. L’antesignano art. 5, d.P.R. n. 447/’98 cit. prevedeva invece che «qualora l’esito della conferenza di servizi comporti la variazione dello strumento urbanistico, la determinazione costituisce proposta di variante sulla quale, tenuto conto delle osservazioni, proposte e opposizioni formulate dagli aventi titolo ai sensi della legge 17 agosto 1942, n. 1150» (corsivo ovviamente aggiunto da me): in entrambi gli schemi la fase dialogica è quindi esoconferenziale.
[51] Per le opere pubbliche o di pubblica utilità, gli interventi d’ampliamento e ristrutturazione di fabbricati adibiti all’esercizio d’impresa, gli impianti produttivi di cui al d.P.R. n. 160/’10 cit.
[52] Qui torna il tema della riserva di pianificazione urbanistica a favore delle figurae prossimali: la legge regionale in esame si mostra molto protettiva nei loro confronti, richiedendone l’assenso per riconoscere al PAUR efficacia di variante. Scelta discutibile, visto che il diritto giurisprudenziale si va in generale assestando su posizioni meno sensibili nei confronti di un autonomismo territoriale siffatto.
[53] Consultabili all’indirizzo https://va.minambiente.it/it-IT/Comunicazione/DettaglioDirezione/1849.
[54] Indirizzi operativi, cit., p. 9 (ho aggiunto io il corsivo).
[55] Indirizzi operativi, cit., p. 13 s.
[56] Indirizzi operativi, cit., p. 13.
[57] Si può aggiungere l’art. 19, commi 2-4, t.u. sugli espropri per utilità pubblica: «2. L’approvazione del progetto preliminare o definitivo da parte del consiglio comunale, costituisce adozione della variante allo strumento urbanistico. 3. Se l’opera non è di competenza comunale, l’atto di approvazione del progetto preliminare o definitivo da parte della autorità competente è trasmesso al consiglio comunale, che può disporre l’adozione della corrispondente variante allo strumento urbanistico. 4. Nei casi previsti dai commi 2 e 3, se la Regione o l’ente da questa delegato all’approvazione del piano urbanistico comunale non manifesta il proprio dissenso entro il termine di novanta giorni, decorrente dalla ricezione della delibera del consiglio comunale e della relativa completa documentazione, si intende approvata la determinazione del consiglio comunale, che in una successiva seduta ne dispone l’efficacia».
Da notare la previsione del silenzio assenso regionale che – pur non alterando lo schema tradizionale a doppia battuta – lo declina tuttavia in una versione più snella: questo modello potremmo categorizzarlo quindi come variante non (solo) semplificata, ma (anche) accelerata.
[58] Ecco il testo dell’art. 31-bis («Misure di semplificazione per gli impianti di biogas e di biometano»): «1. […]. 2. Le disposizioni dell’articolo 12 del decreto legislativo 29 dicembre 2003, n. 387, si applicano anche a tutte le opere infrastrutturali necessarie all’immissione del biometano nella rete esistente di trasporto e di distribuzione del gas naturale, per le quali il provvedimento finale deve prevedere anche l’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio dei beni in esso compresi nonché la variazione degli strumenti urbanistici ai sensi del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327».
[59] Art. 12, comma 4, d.lgs. n. 387/’03 cit.
[60] Art. 12, comma 3, d.lgs. n. 387/’03 cit.
[61] Art. 12, comma 4, d.lgs. n. 387/’03 cit.
[62] Per esempio, Cons. Stato, V, 25 maggio 2018, n. 3109. Il caso deciso concerneva un’autorizzazione unica ex art. 12, comma 3, d.lgs. n. 387/’03 ed ex art. 208, d.lgs. n. 152/’06.
[63] Cons. Stato n. 3109/’18, cit.
[64] D. Gambetta, L’autorizzazione “in variante” per impianti di smaltimento e di recupero di rifiuti ex art. 208 codice dell’ambiente e i relativi rapporti con la competenza comunale in materia di pianificazione urbanistica, in diritto.it, 2020.
[65] Queste le opere indicate nell’allegato IV: «1) Realizzazione asse ferroviario Palermo-Catania-Messina; 2) Potenziamento linea ferroviaria Verona-Brennero (opere di adduzione); 3) Realizzazione della linea ferroviaria Salerno-Reggio Calabria; 4) Realizzazione della linea ferroviaria Battipaglia-Potenza-Taranto; 5) Realizzazione della linea ferroviaria Roma-Pescara; 6) Potenziamento della linea ferroviaria Orte-Falconara; 7) Realizzazione delle opere di derivazione della Diga di Campolattaro (Campania); 8) Messa in sicurezza e ammodernamento del sistema idrico del Peschiera (Lazio); 9) Interventi di potenziamento delle infrastrutture del Porto di Trieste (progetto Adriagateway); 10) Realizzazione della Diga foranea di Genova».
[66] Art. 44, comma 4: «In relazione agli interventi di cui all’Allegato IV del presente decreto, decorsi quindici giorni dalla trasmissione al Consiglio superiore dei lavori pubblici del progetto di fattibilità tecnica ed economica, ove non sia stato restituito ai sensi del secondo periodo del comma 1, ovvero contestualmente alla trasmissione al citato Consiglio del progetto modificato nei termini dallo stesso richiesti, la stazione appaltante convoca la conferenza di servizi per l’approvazione del progetto ai sensi dell’articolo 27, comma 3, del decreto legislativo n. 50 del 2016. La conferenza di servizi è svolta in forma semplificata ai sensi dell’articolo 14-bis della legge 7 agosto 1990, n. 241 e nel corso di essa, ferme restando le prerogative dell’autorità competente in materia di VIA, sono acquisite e valutate le eventuali prescrizioni e direttive adottate dal Consiglio superiore dei lavori pubblici ai sensi del secondo periodo del comma 1, nonché gli esiti del dibattito pubblico e le osservazioni raccolte secondo le modalità di cui all’articolo 46 del presente decreto, della verifica preventiva dell’interesse archeologico e della valutazione di impatto ambientale. La determinazione conclusiva della conferenza approva il progetto e tiene luogo dei pareri, nulla osta e autorizzazioni necessari ai fini della localizzazione dell’opera, della conformità urbanistica e paesaggistica dell’intervento, della risoluzione delle interferenze e delle relative opere mitigatrici e compensative. La determinazione conclusiva della conferenza perfeziona, ad ogni fine urbanistico ed edilizio, l’intesa tra Stato e regione o provincia autonoma, in ordine alla localizzazione dell’opera, ha effetto di variante degli strumenti urbanistici vigenti e comprende il provvedimento di VIA e i titoli abilitativi rilasciati per la realizzazione e l’esercizio del progetto, recandone l’indicazione esplicita. La variante urbanistica, conseguente alla determinazione conclusiva della conferenza, comporta l’assoggettamento dell’area a vincolo preordinato all’esproprio ai sensi dell’articolo 10 del decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327, e le comunicazioni agli interessati di cui all’articolo 14, comma 5, della legge n. 241 del1990 tengono luogo della fase partecipativa di cui all’articolo 11 del predetto decreto del Presidente della Repubblica n. 327 del 2001. Gli enti locali provvedono alle necessarie misure di salvaguardia delle aree interessate e delle relative fasce di rispetto e non possono autorizzare interventi edilizi incompatibili con la localizzazione dell’opera».
[67] Ecco il testo dell’art. 5-bis: «1. Fatto salvo quanto previsto dalle norme vigenti in materia di autorizzazione di impianti e infrastrutture energetiche ed in materia di opere ed altre attività ricadenti nella competenza territoriale delle Autorità di sistema portuale e degli aeroporti, le opere per la realizzazione di progetti infrastrutturali nelle zone economiche speciali (ZES) da parte di soggetti pubblici e privati sono di pubblica utilità, indifferibili ed urgenti. 2. I progetti inerenti alle attività economiche ovvero all’insediamento di attività industriali, produttive e logistiche all’interno delle ZES, non soggetti a segnalazione certificata di inizio attività, sono soggetti ad autorizzazione unica, nel rispetto delle normative vigenti in materia di valutazione di impatto ambientale. L’autorizzazione unica, ove necessario, costituisce variante agli strumenti urbanistici e di pianificazione territoriale, ad eccezione del piano paesaggistico regionale. 3. L’autorizzazione unica, nella quale confluiscono tutti gli atti di autorizzazione, assenso e nulla osta comunque denominati, previsti dalla vigente legislazione in relazione all’opera da eseguire, al progetto da approvare o all’attività da intraprendere, è rilasciata dal Commissario straordinario della ZES, di cui all’articolo 4, comma 6, in esito ad apposita conferenza di servizi, in applicazione dell’articolo 14-bis della legge 7 agosto 1990, n. 241. 4. Alla conferenza di servizi sono convocate tutte le amministrazioni competenti, anche per la tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali, demaniale, antincendio, della salute dei cittadini e preposte alla disciplina doganale. 5. Il rilascio dell’autorizzazione unica sostituisce ogni altra autorizzazione, approvazione e parere comunque denominati e consente la realizzazione di tutte le opere, prestazioni e attività previste nel progetto. 6. Le previsioni di cui ai commi da 2 a 5 si applicano altresì alle opere e altre attività all’interno delle ZES e ricadenti nella competenza territoriale delle Autorità di sistema portuali e, in tal caso, l’autorizzazione unica prevista dai citati commi è rilasciata dall’Autorità di sistema portuale».
[68] Opposta la posizione di F. Merloni, Il Titolo V, le Regioni e le riforme delle autonomie territoriali, in Istituzioni del federalismo, 2021, p. 7 ss., spec. p. 16: «Si deve ripartire, quindi, da un’affermazione di fondo: la pubblica amministrazione, lo strumento che la Costituzione pone a garanzia dei diritti fondamentali dei cittadini, resta l’amministrazione locale, con due livelli di enti, i Comuni e le Province, titolari della gran parte delle funzioni di amministrazione attiva. Funzioni operative possono esser affidate a superiori livelli di governo, ma si deve trattare di eccezioni, strettamente motivate dall’impossibilità di un loro affidamento ai livelli di governo locale». Credo che la diversità di opinioni dipenda in modo decisivo dal punto geografico di osservazione: se – come nel mio caso – si guarda da sud, quelle eccezioni sono in realtà la regola.
[69] Come si legge nella relazione illustrativa al decreto legge in esame (cfr. p. 9), la disposizione è finalizzata ad attuare la riforma 1.2 della Missione M3C1-2, concernente l’«Accelerazione dell’iter di approvazione dei progetti ferroviari». Questo il contenuto dell’art. 6, d.l. n. 152/’21, citato nel testo: «1. Al decreto-legge 31 maggio 2021, n. 77, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 luglio 2021, n. 108, dopo l’articolo 48 è inserito il seguente: “Art. 48-bis (Disposizioni urgenti in materia di infrastrutture ferroviarie e di edilizia giudiziaria). – 1. Al fine di ridurre, in attuazione delle previsioni del PNRR, i tempi di realizzazione degli interventi relativi alle infrastrutture ferroviarie, nonché degli interventi relativi alla edilizia giudiziaria e alle relative infrastrutture di supporto, ivi compresi gli interventi finanziati con risorse diverse da quelle previste dal PNRR e dal PNC e dai programmi cofinanziati dai fondi strutturali dell’Unione europea, l’affidamento della progettazione ed esecuzione dei relativi lavori può avvenire anche sulla base del progetto di fattibilità tecnica ed economica di cui all’articolo 23, comma 5, del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, a condizione che detto progetto sia redatto secondo le modalità e le indicazioni di cui all’articolo 48, comma 7, quarto periodo. In tali casi, la conferenza di servizi di cui all’articolo 27, comma 3, del citato decreto legislativo n. 50 del 2016 è svolta in forma semplificata ai sensi dell’articolo 14-bis della legge 7 agosto 1990, n. 241, e la determinazione conclusiva della stessa approva il progetto, determina la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera ai sensi dell’articolo 12 del decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 237 e tiene luogo dei pareri, nulla osta e autorizzazioni necessari ai fini della localizzazione dell’opera, della conformità urbanistica e paesaggistica dell’intervento, della risoluzione delle interferenze e delle relative opere mitigatrici e compensative. Resta ferma l’applicazione delle disposizioni di cui all’articolo 14-quinquies della legge 7 agosto 1990, n. 241. La determinazione conclusiva della conferenza perfeziona, altresì, ad ogni fine urbanistico ed edilizio, l’intesa tra Stato e regione o provincia autonoma, in ordine alla localizzazione dell’opera, ha effetto di variante degli strumenti urbanistici vigenti e comprende i titoli abilitativi rilasciati per la realizzazione e l’esercizio del progetto, recandone l’indicazione esplicita. La variante urbanistica, conseguente alla determinazione conclusiva della conferenza, comporta l’assoggettamento dell’area a vincolo preordinato all’esproprio ai sensi dell’articolo 10 del decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327, le comunicazioni agli interessati di cui all’articolo 14, comma 5, della legge n. 241 del 1990 tengono luogo della fase partecipativa di cui all’articolo 11 del predetto decreto del Presidente della Repubblica n. 327 del 2001. Gli enti locali provvedono alle necessarie misure di salvaguardia delle aree interessate e delle relative fasce di rispetto e non possono autorizzare interventi edilizi incompatibili con la localizzazione dell’opera. 2. […]”».
[70] Il d.d.l. AC 3354, recante conversione del d.l. n. 152/’21, è stato presentato alla Camera il 6 novembre scorso.
[71] Di seguito il testo dell’art. 48-bis (Interventi sulle infrastrutture energetiche lineari). «1. Per gli interventi infrastrutturali ferroviari rientranti nelle disposizioni di cui agli articoli 44 e 48, che ai fini della loro funzionalità necessitano di connessione alle infrastrutture lineari energetiche, le procedure autorizzatorie di cui ai predetti articoli possono applicarsi anche alla progettazione degli interventi di modifica, potenziamento, rifacimento totale o parziale o nuova realizzazione di tali infrastrutture, ove queste siano strettamente connesse e funzionali all’infrastruttura ferroviaria. In tali casi, il procedimento si svolge mediante unica conferenza di servizi alla quale partecipano tutte le amministrazioni competenti all’adozione di provvedimenti, pareri, visti, nulla osta e intese relativi all’infrastruttura ferroviaria e alle opere di connessione. La determinazione conclusiva della conferenza dispone l’approvazione del progetto ferroviario e l’autorizzazione alla costruzione e all’esercizio delle opere di connessione elettriche in favore del soggetto gestore dell’infrastruttura lineare energetica, ai sensi degli articoli 52-bis e seguenti del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327. Con tale determinazione, le connessioni elettriche alle infrastrutture di cui al primo periodo sono dichiarate di pubblica utilità e inamovibili ai sensi dell’articolo 52-quater, commi 1 e 5, del citato testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 327 del 2001 e la loro localizzazione, in caso di difformità dallo strumento urbanistico vigente, ha effetto di variante con contestuale imposizione del vincolo preordinato all’esproprio, con attribuzione del relativo potere espropriativo al soggetto gestore dell’infrastruttura lineare energetica».
[72] Ancora lui, il gran solitario di Plettenberg. Rinvio, per una veduta più ampia del pensiero schmittiano sulla questione dei valori, al mio La cambiale di Forsthoff. Creazionismo giurisprudenziale e diritto al giudice amministrativo, Napoli, ESI, 2021. Qui ricordo solo l’acre finale della Tyrannei, pieno di sarcasmo dolente e di timore non sopito nei confronti di tutti i detentori di potere che si ergano ad attuatori immediati di valori («unmittelbarer Wertvollzieher») senza curarsi dei rischi che ciò comporta: sopra tutto quando questo ruolo di «valutatore, trasvalutatore, rivalutatore o svalutatore» («Werter, Umwerter, Aufwerter oder Abwerter») si traduca nello stabilire più o meno arbitrariamente una gerarchia di valori («Wertstufenordnung»).
[73] P. Carpentieri, Paesaggio, ambiente e transizione ecologica, in giustiziainsieme.it, 2021.
[74] F. De Leonardis, Il silenzio assenso in materia ambientale: considerazioni critiche sull’art. 17-bis introdotto dalla cd. riforma Madia, in federalismi.it, 2015, p. 3.
Nello stesso senso A. Bonomo, La semplificazione degli assensi ambientali come soluzione alla lentezza dell’amministrazione: riflessioni critiche, in A. Bonomo, L. Tafaro, A. F. Uricchio (a cura di), Le nuove frontiere dell’eco-diritto, Bari, Cacucci, 2021, p. 203 ss., spec. p. 206: «La codificazione degli ultimi anni, a partire dalla legge Madia fino al recente decreto semplificazioni […] ha esteso l’applicazione di alcuni istituti di semplificazione procedimentale anche alle amministrazioni ambientali tradizionalmente immuni dal virus semplificatorio, in base all’esigenza di maggiore protezione degli interessi coinvolti. Nel conflitto tra i due interessi, quello alla protezione “rafforzata” dell’ambiente all’interno del procedimento e quello dell’accelerazione, attraverso lo snellimento delle dinamiche procedimentali, sembra invece che gradualmente il legislatore, sulla spinta delle pressioni provenienti dal mondo delle imprese, stia optando a favore del secondo». E ancora: «Nel momento in cui il legislatore sembra gradualmente accettare che nella ponderazione tra l’interesse dell’istante (e del mercato) alla celerità e quello alla protezione dell’ambiente prevalga il primo, il sospetto è che l’esigenza di semplificazione possa rappresentare solo un modo per mascherare la preferenza nei confronti del valore connesso allo sviluppo e alla crescita economica, rendendo l’accelerazione dei procedimenti amministrativi un vero e proprio interesse pubblico autonomo» (p. 209).
[75] Corsivo ovviamente aggiunto.
[76] Ad avviso, invece, di S. Amorosino, La conversione energetica delle centrali elettriche quale misura di attuazione del PNIEC e nel PNRR (relazione al convegno AIDA – Associazione italiana di Diritto dell’ambiente del 25 giugno 2021 su Le energie rinnovabili nel PNRR) «la costituzione di una Soprintendenza speciale unica, per i progetti PNIEC/PNRR, presso la D.g. Archeologia, Belle Arti e Paesaggio del Ministero della Cultura [ha il] fine di accentrare ed uniformare le decisioni, sottraendole agli erratici e sovente ostativi orientamenti delle singole Soprintendenze». Soggiunge Amorosino: «la questione, al di là dell’“ancoraggio” normativo, è politica e, prima ancora, culturale; ed è complicata da una giurisprudenza del Consiglio di Stato (e, “a ruota”, di alcuni TAR) che – benché ispirata al meritorio criterio della massima tutela dei beni paesaggistici – il più delle volte avalla i frequenti provvedimenti ostativi delle Soprintendenze. In altre parole: l’equiordinazione concettuale dei due interessi di rilevanza costituzionale – la tutela dell’ambiente e la tutela del paesaggio – nel diritto vivente è apparsa talora un po’ sbilanciata; non solo – è da aggiungere – per gli orientamenti giurisprudenziali, ma anche per l’acquiescenza, in sede di Consiglio dei Ministri, ai niet del Ministro dei Beni e delle Attività Culturali».
[77] Gli dei benigni che proteggono la lingua nostra ci scampino qui da horribilia come il sintagma «mettere a terra».
[78] M. G. Palladino – E. Rossi, Costruzioni a rischio ingorgo, in lavoce.info, 9 novembre 2021: «Nella quantificazione dell’allocazione diretta spicca la quota destinata a “costruzioni”: oltre il 40 per cento del totale dei fondi resi disponibili dal Piano (81,2 miliardi di euro) transitano in prima battuta da questo settore». «La destinazione prevalente al settore “costruzioni” – proseguono Palladino e Rossi – potrebbe creare un rischio di forte sovraffollamento di progetti, sia nel comparto residenziale che in quello infrastrutturale. Il programma pubblicato del ministero delle Infrastrutture e Mobilità sostenibili, che analizza l’orizzonte temporale degli investimenti nel settore, tende a smorzare il rischio, prevedendo scadenze “allungate” per buona parte delle voci di spesa che riguardano le costruzioni. Tuttavia, anche se distribuito su alcuni anni, un ammontare di risorse pari a 81,2 miliardi in progetti da gestire, con relativi percorsi autorizzativi e identificazione dei migliori fornitori potrebbe determinare un surriscaldamento del settore […]».
[79] Ancorché con gli eccessi protettivi e i modelli indecisionistici che pure abbiam ricordato.
[80] P. Carpentieri, Paesaggio, ambiente e transizione ecologica, cit.