Sull’ammissibilità della sanatoria sismica per abusi formali, di Fabio Cusano

Il Cons. Stato, sez. II, 22 aprile 2024, n. 3645 ha ribadito che la regola della doppia conformità vale anche per la normativa antisismica, costituendo, per gli interventi in zona sismica, un principio fondamentale delle materie di governo del territorio e protezione civile. Ne deriva che per gli abusi strutturali “formali” è ammessa la sanatoria sismica, purché essa consegua all’accertamento della conformità delle strutture alle norme tecniche vigenti al momento dell’adozione del provvedimento sanante, sia al momento della realizzazione dell’opera, in estensione della previsione della doppia conformità edilizia alla diversa ipotesi di assenza del (o difformità dal) titolo sismico.

È appellata la sentenza del TAR con la quale è stato respinto il ricorso proposto dalla ricorrente avverso il diniego di sanatoria ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001.

L’appello è infondato.

La questione posta all’esame del Collegio attiene al raccordo, per quanto riguarda le zone soggette alla normativa tecnica e segnatamente (anche) alla tutela antisismica, tra le disposizioni che regolano la sanatoria ex art. 36 e quelle di settore di cui agli artt. 83 e ss. (ovvero, per quanto di più specifico interesse, 65 del T.u.e.). Trattasi di tematica di estrema complessità e delicatezza, che sconta le difficoltà derivanti da innegabili lacune normative, a fronte delle quali l’interprete è chiamato ad individuare una lettura che contemperi l’effettività del regime delle sanatorie con la necessità di non abbassare minimamente la soglia della tutela dell’incolumità pubblica in un Paese il cui territorio si connota notoriamente per l’estensione delle zone vulnerabili da un punto di vista sismico.

Va innanzi tutto ricordato come il d.P.R. n. 380 del 2001 non contempla espressamente alcuna procedura di sanatoria c.d. strutturale, ovvero riferita alla mancata denuncia preventiva o alla mancata richiesta di autorizzazione sismica di cui agli artt. 65, 93 e 94. A ben guardare, anzi, il controllo esercitato dall’amministrazione competente per gli interventi in zone sismiche è costruito dal legislatore in maniera preventiva, come si ricava da una serie di indici testuali contenuti nelle norme di riferimento. L’art. 65 del Testo unico, ad esempio, prevede che le opere siano denunciate «prima del loro inizio»; l’art. 93, a sua volta, impone a chiunque intenda procedere ad interventi nelle zone sismiche, di darne «preavviso» scritto allo sportello unico, che provvederà alla trasmissione al competente ufficio tecnico regionale; il successivo art. 94 infine si riferisce ad una «preventiva autorizzazione», sicché la procedura deve essere inequivocabilmente completata prima dell’esecuzione dell’intervento, nel rispetto delle formalità richieste.

Al riguardo, la Corte costituzionale ha già ricondotto in più occasioni tali regole procedurali a principi fondamentali cui le Regioni possono dare solo attuazione di dettaglio, non in deroga, in quanto rispondono ad esigenze di unitarietà di regime, particolarmente pregnanti di fronte al rischio sismico, che «non tollera alcuna differenziazione collegata ad ambiti territoriali» (ex multis, sentenze n. 264 del 2019; n. 232 e n. 60 del 2017, n. 282 del 2016 e n. 300 del 2013). In tal modo infatti si garantisce infatti un capillare controllo sulle tecniche costruttive sul territorio caratterizzato da vulnerabilità sismica.

Sul rapporto tra titolo edilizio e assenso sismico la giurisprudenza in passato non è stata univoca, tanto da ammettere che quest’ultimo intervenisse successivamente al permesso di costruire o alla proposizione della SCIA (v. Cons. Stato, sez. IV, 28 novembre 2018, n. 6738, ove si afferma che «l’autorizzazione sismica, laddove richiesta, è condizione per l’inizio dei lavori, e non già per il rilascio del titolo edilizio ed il progetto esecutivo è depositato separatamente -nel distinto procedimento- dalla documentazione richiesta per il titolo abilitativo»). Più di recente, tuttavia, valorizzando la previsione dell’art. 20, d.P.R. n. 380 del 2001, secondo cui la dichiarazione del progettista, in sede di istanza, deve anche asseverare il rispetto delle norme di settore, pare essersi consolidato il riconoscimento di un rapporto di presupposizione tra titoli, che il Collegio condivide. Ciò trova conferma nella clausola di rinvio con cui si apre l’art. 94 del T.u.e., che reca: «Fermo restando l’obbligo del titolo abilitativo all’intervento edilizio […]», intendendo evidentemente che esso dovrà essere comunque conseguito, in aggiunta all’autorizzazione di cui si tratta, qualora la tipologia dell’intervento da eseguire lo richieda.

La giurisprudenza più recente ha dunque affermato che in assenza del titolo attestante la conformità alla disciplina antisismica, il permesso di costruire è in ogni caso inefficace, ovvero non idoneo a legittimare le opere a suo tempo realizzate (v. Cons. Stato, sez. VI, 15 aprile 2021, n. 3086).

Tali considerazioni sono state estese anche alla corretta lettura da dare all’art. 36 del T.u.e., che richiederebbe di «[…] verificare, ancora prima dell’adozione del permesso di costruire in sanatoria, se le opere possano o meno ritenersi sostanzialmente conformi alla disciplina di riferimento: a tali fini, risulta necessario accertare, tra l’altro, il previo rilascio dell’autorizzazione sismica (ove prevista), idonea ad escludere quei pericoli per la staticità delle opere abusive che, ove esistenti, impedirebbero la sanatoria, imponendo l’irrogazione della sanzione demolitoria» (così Cons. Stato, sez. VI, 19 maggio 2022, n. 3963). E ancora, nell’affermare che «l’accertamento del rispetto delle specifiche norme tecniche antisismiche è sempre un presupposto necessario per conseguire il titolo che consente di edificare», si è riconosciuto che esso possa essere acquisito anche in maniera postuma, essendo state inserite tra parentesi, dopo l’affermazione della regola generale, le parole «anche quello in sanatoria» (Cons. Stato, sez. III, 31 maggio 2021, n. 4142).

Va ora ricordato come il rilascio della sanatoria di cui all’art.36 del T.u.e. è sottoposto al principio della doppia conformità, che non è richiesto in caso di vero e proprio condono. In ragione di tale esplicita scelta del legislatore essa si applica ai soli abusi «formali», ossia dovuti alla carenza del titolo abilitativo, rendendo così palese la ratio ispiratrice della previsione «anche di natura preventiva e deterrente», finalizzata a frenare l’abusivismo edilizio (Consiglio Stato, sez. IV, 21 dicembre 2012, n. 6657). Non sono più ritenute possibili, dunque, letture «sostanzialiste» finalizzate a legittimare la regolarizzazione di opere in contrasto con la disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della loro realizzazione, ma con essa conformi al momento della presentazione dell’istanza per l’accertamento di conformità.

Anche sull’esatto perimetro della “doppia conformità” vanno richiamati i principi espressi dalla Corte costituzionale avuto riguardo proprio alla disciplina antisismica, che vi è stata ricompresa.

Ciò in quanto le disposizioni di cui al capo IV della parte II del testo unico di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, recante, appunto, «Provvedimenti per le costruzioni con particolari prescrizioni per le zone sismiche», contengono prescrizioni aggiuntive, e non alternative, a quelle generali per l’edilizia, come confermato sia dall’utilizzo dell’aggettivo “particolari”, appunto, sia dalla sistematica delle norme, collocate nella Parte II dello stesso Testo unico, che concerne la «Normativa tecnica per l’edilizia». Se pertanto nel sistema delineato dalla normativa statale, tanto gli interventi edilizi soggetti a permesso di costruire che quelli consentiti a seguito di segnalazione, presuppongono sempre la previa verifica del rispetto delle norme sismiche, non pare possa dubitarsi che la verifica della doppia conformità, alla quale l’art. 36 del testo unico subordina il rilascio dell’accertamento di conformità in sanatoria, debba esso pure riferirsi anche al rispetto delle norme sismiche, da comprendersi in quelle per l’edilizia vigenti al momento della realizzazione dell’intervento e a quello di presentazione della domanda di sanatoria (Corte cost., 5 giugno 2013, n. 101). In sintesi, «la regola della doppia conformità vale anche per la normativa antisismica, costituendo, per gli interventi in zona sismica, un principio fondamentale delle materie “governo del territorio” e “protezione civile”» (Corte cost. 20 gennaio 2021, n. 2, che richiama anche la precedente sentenza n. 290 del 2019). A ciò consegue che in linea generale ove il richiedente non è in possesso dello specifico titolo di cui è causa la sanatoria non può essere concessa per mancanza del requisito della doppia conformità, ma non vale necessariamente il reciproco, ovvero la carenza del titolo sismico preventivo non si risolve necessariamente in un rigetto, ove la parte dimostri di poterlo conseguire e di averlo in concreto richiesto, seppure in maniera postuma. Quanto detto purché, evidentemente, si rispetti la connotazione di abuso “formale” anche di quello strutturale. Il che, rileva il Collegio, implica in primo luogo e quale inevitabile conseguenza che trattandosi, appunto, di doppia conformità, deve comunque escludersi ogni possibilità di sanatoria “condizionata”, che comunque preveda l’esecuzione di interventi di adeguamento. Le variegate prassi di senso opposto di cui consta la diffusione negli uffici comunali è da ritenersi evidentemente illegittima.

D’altro canto, il Collegio ritiene che chiare indicazioni nel senso dell’ammissibilità della sanatoria sismica vengano proprio dalla sentenza della Consulta richiamata da ultimo (n. 2 del 2021). Essa infatti si riferisce ad una novella non sostanziale dell’art. 46 della l.r. Toscana n. 69 del 2019, e ne afferma la illegittimità proprio sul solo rilievo del mancato rispetto del requisito della doppia conformità sismica al momento della realizzazione delle opere e al momento di proposizione della richiesta (la norma regionale richiamava, infatti, il solo rispetto delle N.T.C. vigenti al momento della proposizione dell’istanza). Si legge infatti nel par. 14.3: «Dal combinato disposto dei commi 1 e 2 dell’art. 182 [della legge regionale] deriva una situazione di incertezza, per il destinatario della norma, se la conformità alla normativa tecnica debba intendersi quale “doppia conformità”, come inderogabilmente richiesto dalla legislazione statale, ovvero quale mera conformità al momento della presentazione della domanda». Quanto detto malgrado il Governo nel ricorso lamentasse in via principale in radice la previsione di un istituto (appunto, la sanatoria sismica) privo di riferimenti nella normativa di principio statale («[…] secondo la ricorrente, la disposizione si porrebbe in contrasto con l’art. 117, terzo comma, Cost., in relazione alla materia governo del territorio [perché] sembrerebbe introdurre un titolo in sanatoria non contemplato dalla legislazione statale»). Di fatto, dunque, si è a contrario ammessa espressamente la sanatoria sismica, purché essa consegua all’accertamento della conformità delle strutture alle norme tecniche vigenti sia al momento dell’adozione del provvedimento sanante (secondo l’ordinario canone del tempus regit actum), sia al momento della realizzazione dell’opera, in estensione della previsione (in verità eccezionale) della doppia conformità edilizia alla diversa ipotesi di assenza del (o difformità dal) titolo sismico. Tenuto conto che nel tempo le regole tecniche funzionali alla tutela di settore hanno subito un comprensibile rafforzamento, il riferimento alle stesse al momento della richiesta di sanatoria non può che risolversi, peraltro, anche in un’elevazione della soglia delle tutele, che rende inutilmente e sproporzionatamente punitiva la demolizione ad ogni costo.

Negando in toto l’ammissibilità di un’autorizzazione sismica postuma, infine, essendo considerazione nota l’estensione del territorio soggetto alla relativa tutela in Italia, si rischierebbe di addivenire ad una sorta di interpretatio abrogans dell’art. 36 del T.u.e., in fatto difficilmente utilizzabile.

Del resto, la soluzione appare in linea sia con le risultanze della maggior parte della giurisprudenza penale che con la relativa disciplina sanzionatoria.

A fronte della mancata previsione della sanatoria sismica quale causa estintiva dei corrispondenti illeciti contravvenzionali, sul modello di quanto disposto dall’art. 45 del d.P.R. n. 380 del 2001 per gli altri reati edilizi, è infatti noto e ben comprensibile l’approccio rigoroso della Corte di Cassazione che ha categoricamente escluso che il deposito allo sportello unico “in sanatoria” degli elaborati progettuali faccia venire meno il reato di omesso deposito preventivo degli elaborati (Cass., sez. 3, 7 maggio 2019, n. 19196); affermazione estesa pure agli illeciti previsti dagli artt. 71 e seguenti del d.P.R. n. 380 del 2001 per la violazione della disciplina delle opere in conglomerato cementizio armato, normale e precompresso ed a struttura metallica (Cass. sez. 3, 13 novembre 2018, n. 54707). In taluni casi, essa non ha dato rilievo al deposito postumo del progetto neppure ai fini del riconoscimento della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis c.p., a prescindere peraltro, quantomeno in tali ipotesi, dall’assenza di violazioni sostanziali delle norme tecniche che disciplinano l’edificazione nelle zone sismiche (cfr. Cass., sez. 3, 18 maggio 2018, n. 49679). E tuttavia, proprio nel ribadire costantemente che la sanatoria sismica non produce effetti estintivi del reato, si è finito per postulare in ogni caso la vigenza dell’istituto (in maniera esplicita, v. Cass., sez. III, n. 2848 del 2019, ove si legge: «il rilascio in sanatoria dell’autorizzazione dell’Ufficio del Genio civile non costituisce causa estintiva dei reati di violazione della normativa antisismica di cui agli artt. 93, 94 e 95 del d.P.R. 380 del 2001»).

Il sistema delle tutele penali rigorosamente ancorato al dato formale del preventivo possesso del titolo e della persistenza del reato ancorché ci si adoperi per la successiva regolarizzazione, fornisce tuttavia ulteriori spunti a favore della ricostruzione seguita. In particolare, va ricordato che l’art. 98, comma 3, del Testo unico, ammette esplicitamente la regolarizzazione dell’abuso in materia sismica, laddove consente al giudice penale di impartire, in luogo della demolizione delle opere o delle parti di esse costruite in difformità alle norme antisismiche, le prescrizioni necessarie per renderle conformi alle stesse, fissando il relativo termine. Di fatto, dunque, non solo è possibile un’integrazione documentale postuma, ma finanche un adeguamento strutturale, stante che la norma riferisce l’adeguamento alle opere, non alle pratiche, che il giudice disporrà avvalendosi necessariamente delle competenze tecniche di specialisti del settore. Se così è, non si comprende per quale ragione l’Amministrazione preposta al controllo di settore non possa muoversi anticipatamente almeno sotto il profilo del vaglio della rispondenza sostanziale dell’intervento ai previsti requisiti di sicurezza, laddove la parte si attivi in tal senso e se ne assuma la responsabilità producendo tutta la necessaria documentazione a supporto. L’art. 98, comma 3, del T.u.e, infatti, crea una riserva di competenza a favore del giudice penale solo in relazione a ridetto adeguamento strutturale. Per le rimanenti previsione essa costituisce piuttosto previsione speculare a quella contenuta in termini generali nell’all’art. 31, comma 9, dello stesso, che egualmente prevede che «Per le opere abusive di cui al presente articolo, il giudice, con la sentenza di condanna per il reato di cui all’articolo 44, ordina la demolizione delle opere stesse se ancora non sia stata altrimenti eseguita». A fronte, cioè, dell’inerzia dell’Amministrazione, riferita anche alla possibilità conformativa, egli si sostituisce alla stessa, disponendo con il decreto penale ovvero con la sentenza, oltre alla condanna, anche la demolizione, se già non intervenuta, ovvero, in alternativa, la regolarizzazione. Né pare crearsi in tal modo una discriminazione «tra chi diligentemente agisce osservando la legge rispetto a chi realizza un intervento senza titolo, sottraendo le opere ad ogni preventivo controllo» (così Cass., sez. 3, 20 gennaio 2023, n. 2357, che ha di recente negato in assoluto la sanabilità degli abusi in zona sismica), stante che la stessa costituisce per così dire una conseguenza fisiologica dello stesso accertamento di conformità, ovvero più propriamente la risultante della scelta di compromesso sottesa allo stesso effettuata dal legislatore, che ha già ritenuto prevalente a monte, in un doveroso quadro di bilanciamento di interessi, la regolarizzazione dell’avvenuto utilizzo formalmente illecito del suolo, previo pagamento delle somme previste a titolo di oblazione, sul ripristino dello stato dei luoghi. La regolarizzazione postuma, dunque -recte, il controllo postumo della regolarità sismica/strutturale, ove richiesto dalla parte, attivando il relativo procedimento- risponde essa pure a principi di buon andamento dell’azione amministrativa di cui all’art. 97 Cost., nonché di economicità ed efficacia presidiati dall’art. 1 della l. n. 241/1990. Esso peraltro, in quanto si risolve in un controllo di conformità sostanziale anche alla luce delle sopravvenienze normative alla realizzazione dell’abuso, pare rispondere maggiormente alle esigenze di tutela dell’incolumità pubblica, che presuppongono intrinsecamente celerità di risposta, rispetto ad una valutazione delle stesse differita all’esito, non sempre egualmente veloce, del procedimento penale.

Il Collegio è consapevole che la ricostruzione seguita sconta l’obiettiva difficoltà della individuazione, nel silenzio della legge, del procedimento amministrativo necessario. Ritiene tuttavia che lo stesso può essere “modellato” su quello già previsto per il rilascio della autorizzazione sismica “ordinaria”, attingendo alla teoria dei poteri impliciti, secondo cui la stessa Amministrazione titolare del potere di legittimare ex ante un’attività non può non essere titolare anche del potere (implicito) di verificarne ex post i medesimi presupposti di legittimazione, ovvero quelli più stringenti medio tempore sopravvenuti. Le difficoltà pratiche derivanti dalla mancanza di una cornice normativa primaria non possono infatti indurre ad un ripensamento della ricostruzione data, siccome argomentato di recente dal giudice penale (v. ancora Cass., n. 2357/2023, cit. supra).

D’altro canto, la lettura sostanzialistica delle norme tecniche sottesa al principio di doppia conformità sismica, fa propendere per l’applicabilità (anche) delle disposizioni procedurali sopravvenute che hanno modificato/semplificato il procedimento. Quanto detto ferma restando l’opportunità di colmare la denunciata lacuna individuando, da parte delle Regioni e, per quanto di competenza, dei Comuni, nelle more di indicazioni nazionali, una regolamentazione a monte che garantisca la preventiva conoscenza delle regole quale esemplificazione massima del principio di trasparenza dell’azione amministrativa.

Nel caso di specie la realizzazione delle opere e lo sviluppo del procedimento si colloca a cavallo tra le due ricordate discipline procedurali, essendo stata, almeno la prima CILA presentata nel 2017, ovvero prima dell’avvenuta introduzione dell’art. 94-bis nel T.u.e. sulla diversa rilevanza sismica delle opere. Evidentemente per tale ragione il Comune, seppur richiamando solo l’art. 65 del T.u.e., si è limitato a “suggerire” di accedere ai competenti uffici regionali, come documentato dal richiamo, nelle “Note” alla richiesta di sanatoria, al deposito della medesima pratica presso la Regione Lazio, senza che tuttavia sia stato chiarito con quali modalità ciò sia avvenuto e se sia stato effettivamente avviato un procedimento di sanatoria sismica. Il che giustifica il diniego opposto alla parte, cui peraltro la ritenuta violazione dell’art. 65 del T.u.e. era stata pure rappresentata in sede di preavviso di rigetto, sì da metterla in condizione di attivarsi per la regolarizzazione, ove possibile in termini sostanziali.

Va infine ricordato come l’ammissibilità di una denuncia sismica ex post, ovvero di un’analoga richiesta tardiva di autorizzazione, per potersi inserire nel procedimento di sanatoria deve in qualche modo produrre l’effetto di interrompere o quanto meno sospendere il termine di formazione del silenzio rifiuto cui il legislatore ha assoggettato l’esito del relativo procedimento in caso di inerzia dell’amministrazione (art. 36, comma 3, del T.u.e.). La questione tuttavia, che egualmente evidenzia la rimarcata necessità di un complessivo intervento del legislatore, esula dal perimetro dell’odierno giudizio, stante che il Comune ha inteso pronunciarsi in maniera espressa, peraltro oltre i sessanta giorni previsti dal legislatore per la maturazione del rigetto.

Il generico richiamo, quindi, alla circostanza che «non si può decretare il rigetto essendo previamente necessario semplicemente richiedere alla ricorrente la verifica della conformità sismica», contenuto nell’atto d’appello quale alternativa alla rivendicata irrilevanza dell’opera in termini tecnici, seppure astrattamente condivisibile non si attaglia al caso di specie, stante che l’interessata non ha dimostrato e neppure dichiarato di essersi attivata con una nuova denuncia ex art. 65 T.u.e. riferita alla scala di cui chiede la sanatoria edilizia.

Per tutto quanto sopra detto, l’appello deve essere respinto e per l’effetto deve essere confermata la sentenza impugnata, seppure con le integrazioni di cui in motivazione.